DIALOGO CON DAVIDE SISTO

La morte ha da sempre ingenerato una congerie di reazioni nettamente contrastanti, solidificate nella dualistica contrapposizione rifiuto / desiderio smanioso. Persa tra le pieghe di questa dicotomia, la morte è passata a mietere il suo tristo raccolto restando una realtà tabù nelle sue intime implicazioni filosofiche.
Questo dialogo nasce dal confronto di Simone Vaccaro con un pensatore contemporaneo, Davide Sisto, filosofo e tanatologo italiano, che ha scelto di dedicare parte della sua riflessione filosofica alla comprensione e alla rinascita di una dibattimentalità pubblica sul tema della morte, vittima, ancora oggi, di una rimozione il cui silenzio si fa vieppiù assordante.
Simone: Nella sua trilogia tanatologica (Narrare la morte, 2013; La morte si fa social, 2018 e Ricordati di me, 2020) uno degli aspetti che emerge è la necessità della narrazione, del raccontare la morte. Dell’inserirla in un processo discorsivo che possa renderne ragione. Qual è, pertanto, il ruolo filosofico delle narrazioni? Come coniugare la narrazione e la logicità filosofica?
Prof. Sisto: Secondo Novalis, la filosofia è «propriamente nostalgia – impulso a essere di casa ovunque», intendendo un tipo di filosofia, aderente alla cultura del romanticismo tedesco, che mira a ricostruire i fatti concreti della realtà e a fornire un punto di vista sulla realtà, tenendo le sue radici ben conficcate nel suo terreno e quindi essendo consapevole di come la realtà – nella sua complessità – implichi incertezze, errori, imprevisti. Proprio la cultura romantica, di cui sono appassionato dai tempi del liceo, tentava di coniugare l’approccio trascendentale con la narrazione, intesa come forma di sapere che antepone la testimonianza al metodo, che alla costruzione privilegia la ricostruzione, che riconosce un ruolo fondamentale durante il processo conoscitivo al sentimento, all’immaginazione, alla creatività (si pensi, per esempio, allo Schelling della fase intermedia, il quale spiegava limpidamente il suo sistema filosofico nello splendido racconto incompiuto Clara).
Queste sono, in un certo qual senso, le basi filosofiche della mia formazione, la quale ha sempre preferito guardare nella direzione di una filosofia più connessa alla letteratura che alla scienza. Ora, non credo sia arduo coniugare la narrazione alla logicità, se questa viene intesa come un modo di analizzare razionalmente gli eventi della realtà senza la pretesa di pervenire a un sapere oggettivo e definitivo. D’altronde, l’ermeneutica filosofica di stampo pareysoniano, altro ambito di ricerca di cui mi sono occupato, riprende – almeno in parte – il tipo di narrazione romantica indicata applicandolo a un sapere filosofico tutt’altro che privo di logicità e razionalità.
Narrare la morte, Edizioni ETS, Pisa 2013
Simone: Riconosciuta la dimensione non solamente euristica della narrazione, ma filosfico-ermeneutica, dobbiamo porre mente alle enormi modificazioni e trasformazioni che la nostra società ha subito negli ultimi due decenni e, ancor di più con l’esplosione quotidiana dei Social Networks. Scendendo più nel dettaglio, allora, come è possibile “narrare” la morte, soprattutto ora nell’era social?
Prof. Sisto: I social offrono strumenti e spazi inediti per riportare il discorso, la “narrazione” della morte all’interno di una società che è contraddistinta dalla sua decennale rimozione. Il Novecento è stato il secolo del grande tabù della morte, come ben evidenziano Philippe Ariés, Norbert Elias, Jeffrey Gorer e tanti altri noti studiosi che si sono occupati di questo fenomeno. Per decenni il racconto La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj ha offerto le descrizioni più complete dei meccanismi psicologici, sociali e culturali della rimozione della morte dallo spazio pubblico. Questo tipo di tabù ha determinato – come effetto collaterale – una sorta di bulimia delle immagini più pruriginose della morte: espulsa dai discorsi pubblici nella sua quotidiana “naturalezza”, essa ha preso posto soprattutto nelle narrazioni televisive, cinematografiche, ecc. quando presenta aspetti violenti, orrorifici, spaventosi. Aspetti che a primo acchito appaiono “innaturali”, dando adito alla (finta) eccezionalità del morire.
Ma se la morte fa parte della vita e la vita è diventata digitale, è ovvio che anche la morte sia ora divenuta digitale. In altre parole, la dimensione online ha determinato un ritorno della morte e dei morti quali parti costitutive della vita e dei vivi. Pertanto, i social e i vari luoghi online ci pongono quotidianamente dinanzi agli occhi le storie dei malati terminali, i cosiddetti cancer blogger, i quali utilizzano gli spazi online per rendere esplicito ciò che viene di solito nascosto (per esempio, i corpi segnati dalla malattia). Ci fanno vedere le immagini di quei cadaveri che abbiamo disimparato a vedere nella quotidianità e che associamo, per lo più, ai film horror. Soprattutto, in generale, offrono i mezzi per cogliere il senso proprio della morte, quello dell’immediata e improvvisa interruzione della vita, che si palesa molto chiaramente – per esempio – all’interno di un social network come Facebook.
Simone: Si deve però ammettere che con le nuove tecnologie digitali si sta assistendo ad una generale trasformazione cognitiva; la stessa presenza costante della morte nei nostri feed social ci porta inevitabilmente a relazionarci nei suoi confronti con spirito differente. Ebbene, come si sta evolvendo il concetto di morte?
Prof. Sisto: Se, da una parte, i social network rendono possibile il ritorno della morte nello spazio pubblico quale parte costitutiva della vita, dall’altra offrono spunti importanti per coloro che auspicano in maniera utopica una vita senza morte. Tutte le invenzioni scientifiche in corso che cercano di dare autonomia agli “spettri digitali dei morti”, tramite le loro riproduzioni automatiche (ologrammi, controparti virtuali e i cosiddetti “griefbot”, un neologismo che combina insieme i concetti di “grief”, lutto, e di “bot”, il programma automatico che accede al web tramite lo stesso tipo di canali utilizzati dagli uomini in carne e ossa), mirano a utilizzare la dimensione online per realizzare il progetto transumanista del mind-uploading. Dal momento che le nostre presenze online rappresentano un prolungamento significativo della nostra unica identità psicofisica, vi è in corso il tentativo di trasformare questo prolungamento in una vera e propria sostituzione, facendo sì che i nostri io online – con la loro caterva di dati condivisi – possano sopravvivere in maniera automatica alla morte del nostro unico io psicofisico. Se si guarda il rapporto tra la morte e le tecnologie digitali da questo punto di vista, sembra che la nostra attuale vita consista nell’accumulare nel web più informazioni possibili relativi al nostro modo di essere, affinché queste informazioni prendano il nostro posto, continuando la vita che viene interrotta dalla morte. Cosa affascinante, ma – a mio avviso – poco realistica. Semmai, l’evoluzione tecnologica della morte consiste nella creazione senza precedenti di una nostra immensa memoria digitale, più o meno eterna, la quale potrebbe essere intesa come un’impronta vivida lasciata dalla nostra anima o dal nostro spirito nel mondo (una specie di modernizzazione del “mondo degli spiriti” di cui parlava Schelling).
La morte si fa social, Bollati Boringhieri, Torino 2018
Simone: Tutto questo impegno tecnologico a rileggere il concetto di morte ha come effetto rebound quello di coinvolgere anche il significato del concetto di vita e l’interazione tra di loro. E allora, che cos’è, oggi, la morte per una vita?
Prof. Sisto: La morte è e sempre resterà ciò che, in un certo senso, definisce i contorni di ogni singola vita, portando a compimento la sua autobiografia. Che ci piaccia o no pensarlo, tutto ciò che facciamo quotidianamente lo facciamo perché sappiamo che prima o poi non ci saremo più. Di fatto, ogni singolo evento della nostra vita, avendo un inizio, uno sviluppo e una sua fine, anticipa simbolicamente il percorso che riguarda ogni singola esistenza. La morte, una volta che ha effettivamente luogo, pone il sigillo a tutto ciò che l’ha anticipata, quindi dà un senso alla vita che si è terminata. Walter Benjamin definiva, a proposito, la morte come la “sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare”.
Simone: Portare a compimento l’autobiografia richiede un’attenzione e una sensibilità particolari e una necessaria organizzazione di ciò che si lascia affinché la narrazione acquisisca senso. In La morte si fa social ha introdotto l’attività professionale del Dödstädning (Death Cleaning). Quale mansione svolgerebbe e perché se ne è sentita la necessità?
Prof. Sisto: È una pratica che si è sviluppata in Svezia e che si sta diffondendo nel resto del mondo, soprattutto negli Stati Uniti. La “pulizia della morte” consiste nell’organizzazione anticipata e ragionata – insieme alle persone amate – della propria abitazione fisica in vista della sempre eventuale dipartita. La morte improvvisa può, infatti, determinare la morte anche degli oggetti appartenenti a colui che è deceduto. Se negli oggetti di cui facciamo quotidiano uso si sedimenta, in parte, la storia della nostra vita, è inevitabile che – quando non ci saremo più – questi oggetti assumano un valore e un significato che mettono in difficoltà coloro che patiscono il lutto. La Death Cleaning, pertanto, ci permette di comprendere il legame che unisce la vita alla morte, dal momento che ci mette dinanzi alla certezza che il mondo non si ferma quando non ci saremo più. Stabilire anticipatamente il destino delle nostre cose significa, in altre parole, considerare con attenzione il senso del nostro passaggio nel mondo, fare i conti con la paura della morte e ragionare su cosa di tale passaggio vogliamo lasciare ai posteri.
Ciò emerge molto bene, per esempio, nel film Truman, la cui trama si basa sul fatto che il protagonista sa di morire a breve e dunque predispone con razionalità il futuro di tutto ciò che gli sta più a cuore.
Simone: Certamente questa rinnovata consapevolezza reinserisce la morte all’interno di una rete di relazioni che si caricano “simbolicamente” di vita vissuta. Piccola icnologia di una vita trascorsa. Ma tra archivi ed enciclopedie, tra passato e presente, come si prospetta il futuro per il dolente immerso nelle sempre presenti tracce del defunto sul web? Quale spazio allora per l’oblio?
Prof. Sisto:L’epoca delle tecnologie digitali non è propriamente un’epoca favorevole a chi è nostalgico, a chi vive di rimpianti, a chi guarda più il passato che il futuro. Ancor meno lo è per chi patisce un lutto. La registrazione online delle nostre impronte e delle nostre identità rende molto problematica l’elaborazione del lutto, poiché pone il dolente sempre dinanzi alla presenza ininterrotta dello spettro digitale del morto, quindi impedisce quella salubre rottura tra il passato e il presente che viene prodotta dai riti funebri. Mark Fisher sosteneva, a ragione, che «nell’era del digital recall anche la perdita è andata perduta». Aspetto, a mio avviso, assai affascinante. Ma, come detto, anche molto problematico. Questo spiega bene la necessità sempre più stringente di una Death Education mediata da una conoscenza capillare dei meccanismi temporali delle tecnologie digitali. Anche nell’ottica della salvaguardia di quell’oblio eterno, che risulta essere tutt’altro che indesiderabile per molte persone. Nel mio ultimo libro Ricordati di me cito le parole bellissime di W.G. Sebald a proposito della nascita dei cimiteri virtuali: “muovendo da un presente immemore verso un futuro che l’intelligenza di nessun individuo riuscirà più a comprendere, alla fine anche noi lasceremo la vita, senza provare alcun bisogno di restarvi ancora per qualche istante almeno, o di potervi se mai fare ritorno”.
Ricordati di me, Bollati Boringhieri, Torino 2020
Simone: Un’ultima questione ci preme: educare alla morte (che non significa educare a morire beninteso), quanto più educare a parlare della morte, a rendela terreno di dibattito publico, senza proibizionismo o bigottismo di sorta è l’invito che traspare dai suoi libri e articoli. Tuttavia, fine della Death Education è razionalizzare la morte (riconoscerne la “naturalità”) oppure coscienzializzare la sua forza separatrice (il grido disperato di Šestov)?
Prof. Sisto: La Death Education serve a riscoprire, in un’epoca di rimozione sociale e culturale del morire, il ruolo che la morte ricopre all’interno della vita. Dovrebbe aiutare le singole persone a scendere a patti con la propria mortalità, a riuscire a dare un senso al dolore lancinante della perdita e, quindi, a offrirci strumenti che limitino la sofferenza che inevitabilmente ci tocca quando stiamo per morire e quando, soprattutto, dobbiamo affrontare la morte delle persone che amiamo. Mai come oggi, con le tragedie generate dal Covid-19, sarebbe fondamentale incentivare più percorsi di Death Education tanto nelle facoltà umanistiche quanto in quelle scientifiche delle Università italiane.
Davide Sisto – Università di Torino, dipartimento di Filosofia e Scienza dell’Educazione
Davide Sisto è su Facebook e su instagram ed è cocuratore (insieme a Marina Sozzi) del blog Si può dire morte
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@ILLUS. by, JOHNNY PARADISE SWAGGER feat. PATRICIA MCBEAL, 2020