EPISTEME E POTERE TRA PLATONE E HEGEL (Parte II)

Επιστήμη e potere in Hegel
Ciò che sembra emergere, con una certa chiarezza, dalle pagine dei Lineamenti di filosofia del diritto hegeliani è che il corretto funzionamento dello Stato è la manifestazione della razionalità dell’Idea, della Ragione. Il carattere che connota questa dimensione è la sua immanenza: si tratta del principio che orienta l’agire politico e tutto il corpo sociale. Al fine del raggiungimento della totale coincidenza tra realtà e razionalità – ove la razionalità è l’essenza della realtà –, è necessario che ogni agire, da parte di ogni soggettività politica, condivida la stessa direzione. Tutte le forze che compongono l’articolazione dialettica dello Stato devono operare in vista dell’universale, e non del particolare. Prima di spiegare nel dettaglio la configurazione dell’agire universale e di quello particolare, e col fine di rendere più facile la comprensione di tale distinzione, Hegel inserisce un intermezzo squisitamente teoretico. Egli allude alla fondamentale incompatibilità tra astrazione e concretezza: ogni atteggiamento astraente è, in sede metafisica, una modalità inadatta a cogliere la complessità dialettica del reale, in quanto isola e scinde una determinazione finita dello Spirito senza riconoscere il legame che ne esige il superamento e che implica la Vernichtung della sua finitudine, in vista del raggiungimento del senso della Totalità. Il vero è l’intero, il vero è il concreto, la concretezza del tutto che trascende ogni limitazione particolare, ogni ίδιον, ma la cui trascendenza è anzitutto l’immanenza assoluta della razionalità che innerva ciò che è.
Tale nucleo di pensiero – essenziale per tutto l’articolarsi del sistema hegeliano – risulta centrale anche per la riflessione politica. Sulle basi di tale distinzione, Hegel contrappone l’interesse particolare e l’interesse generale, o universale. È chiaro che, per garantire l’attualizzazione della razionalità dell’Idea sul piano politico, occorre che il movente dell’agire sia universale e non particolare, riflesso di interessi privati che non tengono conto dell’insieme della comunità statuale. Questo perché ogni ίδιον è un finito, che in quanto tale va oltrepassato. Tale oltrepassamento non coincide però con un annullamento totale delle istanze private, dal momento che l’Infinito, la Totalità – la razionalità generale dello Stato – tiene conto delle esigenze finite, inscrivendole tuttavia in un progetto universale. Questo è, come vedremo, uno dei punti che distinguono e contraddistinguono il pensiero politico hegeliano, in relazione a quello platonico. In Platone, come si è visto, la diffusività del bene è universale ma viene concepita anzitutto come la prospettiva che i filosofi impongono – seppur in virtù di ragioni profonde e universali – sul resto del corpo sociale, le cui istanze sono, simpliciter, un ostacolo alla piena realizzabilità di Καλλίπολις.
A partire dal paragrafo 301[15], Hegel inizia a fornire alcune caratteristiche proprie del popolo. In primissimo luogo, è fondamentale comprendere che il popolo non può determinare da sé la razionalità del proprio agire. Esso «esprime piuttosto la parte che non sa quello che vuole. Sapere quel che si vuole, e, ancora più, sapere quello che vuole la volontà essente-in-sé-e-per-sé – la Ragione –, è infatti il frutto di una profonda conoscenza e intellezione, e questa, per l’appunto, non è cosa del popolo»[16]. Il popolo è infatti, per Hegel, una molteplicità astratta, che non ha gli strumenti per cogliere la razionalità a formulare una prospettiva universale. Ecco che vediamo ritornare la categoria dell’astratto, come distintiva di un modo inadeguato e inautentico di interpretare l’istanza della rappresentanza. La massa, prosegue Hegel, è amorfa. Il suo muoversi sarebbe elementare, irrazionale, selvaggio e terribile[17]. In questi passi sembra ritornare il lessico che Platone riservava alla folla, costitutivamente non-filosofa. L’elemento che permetterebbe di oltrepassare questa condizione di finitudine (in senso metafisico) della massa è appunto la conoscenza, l’intellezione, il punto di vista della Ragione e dell’Idea, l’universalità che ricondurrebbe nell’immanente finalità dell’Assoluto le istanze particolari delle differenti articolazioni dello Stato. Occorre una mediazione, per tenere insieme il tessuto statuale. Tale mediazione sarebbe appunto il sapere, che garantirebbe il passaggio dall’astrazione alla concretezza. Sul piano politico, l’elemento mediatore è – per Hegel – il ceto. Soffermiamoci ora su questa nozione, fondamentale al fine della comprensione della posizione politica hegeliana.
Il ceto, per Hegel, ha una funzione mediatrice nella misura in cui connette gli interessi particolari a quelli universali. Nella fattispecie, si costituisce come il legame necessario e razionale tra popolo e governo, purché con popolo non si intenda la massa amorfa di cui sopra, ma individui che condividano una qualche – seppur minima – forma di coesione e unità. Ecco la differenza tra ceto e popolo come massa amorfa: da un lato, il mediato e l’universale; dall’altro, l’astratto e l’atomico. L’elemento cetuale, inteso in termini di ceto nobiliare, svolge un’analoga funzione di connessione e di mediazione tra la società e il potere sovrano. Tali mediazioni e connessioni sono possibili unicamente in vista dell’Assoluto, inteso come articolarsi dialettico, che in questa sede è lo Stato, un Tutto – Intero – composto da parti interconnesse, una Totalità che è però più della somma delle sue componenti, in quanto è la stessa limitatezza della parte a dover cedere il posto alla prospettiva dell’Assoluto.
Stanti queste considerazioni, è facile comprendere la natura della critica hegeliana alla democrazia. Questa forma di governo, intesa come potere del popolo, è quella in cui la massa amorfa di cui sopra elegge i propri rappresentanti, senza tuttavia essere espressione di alcuna forma razionale. Il funzionamento dello Stato si regge sulla più radicale assenza di razionalità. Ci si arresta alla determinazione astratta dell’esser-membro dello Stato, che prescinde dalla connessione all’immanente razionalità che ne è la linfa. Alla luce di questa radicale critica al regime democratico – in cui riecheggia la posizione platonica – Hegel propone una trattazione della dimensione dell’opinione pubblica. Essa è costitutivamente accidentale. Si fonda sull’accidentalità dell’opinione, sull’ignoranza e sull’inversione delle cose. Non solo: in essa, «ciò che è in sé e per sé universale – cioè, il Vero e sostanziale – è congiunto con il suo opposto, vale a dire con il peculiare e particolare delle opinioni dei Molti […]. Questa esistenza, pertanto, è autocontraddittoria»[18]. In questo senso, l’opinione pubblica – che va di pari passo con la democrazia – è pericolosa. Essa non dipende da altre dimensioni dello Stato, in quanto è isolata. Tale isolamento sarebbe oltrepassabile soltanto con il rivolgimento a qualcosa di grande e razionale.
Hegel dedica spazio anche alle elezioni, intese come meccanismo di scelta dei rappresentanti in democrazia. L’elezione «è o, in generale, qualcosa di superfluo, oppure si riduce a un gioco meschino dell’opinione e dell’arbitrio»[19]. L’infondatezza e l’insostenibilità delle elezioni si traducono, inevitabilmente, nell’infondatezza del modello di rappresentanza che caratterizza i sistemi democratici. Non è infatti possibile rappresentare interessi individuali isolati, all’interno della prospettiva di Stato che Hegel propugna. La rappresentanza è, necessariamente, rappresentanza di interessi. Questi interessi sono sì particolari, nel senso etimologico del termine, nella misura in cui sono interessi di quella parte che è la classe; cionondimeno, non sono individuali, privati, astratti. All’interno del contesto assembleare, infatti, è proprio l’interazione degli interessi di classe a rendere il corpo sociale un tutto interconnesso, l’espressione della Razionalità dell’Idea che è anche razionalità dello Stato. In questo senso anche la rappresentanza, lungi dall’essere una strategia politica del tutto impraticabile, diviene un elemento cruciale all’interno del disegno statuale hegeliano. La sola condizione affinché questo possa avvenire è che vi sia rappresentanza di interessi di classe e non di singoli individui – in quanto tali, membri astratti dello Stato, privi di esprimere la razionalità che vivifica quest’ultimo[20]. Hegel stesso afferma che tener ferma l’oggettività diventa sempre più difficile a mano a mano che ci si addentra nelle questioni particolari, riguardanti le particolarità specifiche del popolo. In questo senso, la rappresentanza degli interessi collettivi – e non singolari – è la soluzione per mediare tra le istanze degli individui e il progetto ideale, lo Stato – sia concessa la metafora – sub specie aeternitatis.
Conclusioni
È giunto ora il momento di tirare le somme di questa trattazione incrociata. Si tenterà di mostrare le connessioni e le divergenze tra le prospettive che Platone e Hegel propongono riguardo al rapporto tra sapere e potere.
Anzitutto, è facile notare che è sempre l’elemento ideale a muovere e a dirigere l’agire dei governanti. Questo accade certamente in Platone, stante la natura intrinsecamente diffusiva del bene come culmine della struttura dell’intelligibile, la quale fa da modello per la creazione della città ideale. Ma qualcosa di estremamente analogo lo vediamo anche in Hegel: la Ragione si mostra nella sua intrinseca immanenza nell’articolazione razionale dello Stato, che è compito di chi accede al piano razionale (ecco il ruolo del sapere) garantire. Questo, nonostante l’immanenza della Razionalità sia ben più stringente della platonica diffusività del bene.
In questo senso, ci troviamo quindi dinanzi ad una delle differenze che intercorrono tra il discorso politico platonico e quello hegeliano. In Platone non è necessario che si instauri Καλλίπολις. Semmai, è necessario che il sensibile sia istanziazione delle idee – altrimenti, non potrebbe porsi affatto (per chiarire questo punto, si rimanda alla lettura del Timeo, in cui Platone mostra chiaramente come il principium individuationis di ogni sensibile risieda nella causa formale, in quanto questa dà forma, senso, essere e identità all’altrimenti indiscernibile principio spazio-materiale). Tuttavia, non ci sono ragioni che rendano necessaria la riproduzione, sul piano della città storica, dell’ordine intelligibile. In questo senso, non vi è alcuna traccia di immanenza[21]. Καλλίπολις può essere instaurata, o può non esserlo. Emerge il ruolo delle circostanze storiche e della contingenza, ma soprattutto dei governanti – che devono essere filosofi e devono comportarsi in un certo modo, per rendere possibile il progetto politico della città ideale. In Hegel, invece, la necessità dell’immanenza e della realizzazione del razionale nel reale è un punto cruciale. I governanti coordinano questo processo necessario, ma quest’ultimo è ciò che ha da accadere, in ogni caso. In questo risiede il senso dell’utilizzo dell’aggettivo “stringente”, poco sopra.
Un’altra differenza tra la proposta platonica è quella hegeliana risiede nel fatto che, in Platone, il corpo della πόλις è diviso in tre gruppi strettamente definiti e delimitati da ragioni ‘biologiche’. Si tratta di tre stirpi, di cui una – quella dei filosofi-governanti – è destinata alla guida della città e al monopolio della facoltà razionale, un’altra – quella dei guerrieri – alla difesa della città, attraverso l’esercizio del coraggio subordinato alle finalità espresse dall’elemento razionale, e una terza – quella dei produttori – il cui compito è quello di garantire il sostentamento materiale della πόλις, senza però poter prendere parte attiva alla vita politica. In Platone, i gruppi in cui il corpo sociale è suddiviso sono nettamente distinti, laddove invece, in Hegel, ciò non accade. Governanti, ceto nobiliare, società civile, il popolo… si tratta di gruppi i cui membri sono accomunati dalla condivisione di un medesimo interesse di classe, che viene rappresentato in sede assembleare. La sintesi di tali interessi costituisce l’articolarsi dialettico dello Stato. Non vi sono elementi cogenti per poter affermare che l’appartenenza ad uno dei suddetti gruppi sia qualcosa di irreversibile o vincolato a ragioni ‘di sangue’.
Prima di concludere, è però opportuno tornare sui punti di contatto tra le due visioni. Ovviamente, l’antidemocratismo. Pur configurandosi in modalità leggermente differenti – differenze, queste, dovute anzitutto alla diversità dei sistemi filosofici di riferimento –, la critica alla democrazia è un tratto fondativo delle due prospettive politiche prese in considerazione. La democrazia è intesa come il governo del popolo, il quale non detiene – per stirpe o per via delle circostanze – le facoltà di discernimento razionale necessarie a partecipare con verità e concretezza ai processi di deliberazione della vita pubblica. La conoscenza della razionalità implica il potere; la non-conoscenza, al contrario, implica la necessità di essere governati.
Proseguendo coi punti di contatto, non si può non menzionare il ruolo della filosofia all’interno della riflessione politica. La filosofia, intesa come metafisica e/o ontologia, costituisce il fondamento a partire dal quale si articola il pensiero politico. Questo accade sia in Platone che in Hegel, nei modi e nei sensi che si è cercato di evidenziare nel corso di questa ricostruzione. Ma non solo: la filosofia, intesa questa volta come pro-cedere (μεθ-οδός) universale, è ciò che mostra l’articolarsi necessario della ragione, sia nei termini del modello intelligibile platonico riferito alla città storica, sia in quelli dell’Idea che prende forma nello Stato. La filosofia è ciò che dà conto di tutto questo. Essa dà vita e razionalità ai progetti politici. In questo, è opportuno ritornare su un passo delle Lezioni, in cui Hegel critica quanti possano sostenere che il progetto politico platonico sia irrealizzabile in quanto ideale. Proprio in virtù della natura ideale e razionale, il progetto di Καλλίπολις è realizzabile e reale. E lo è proprio perché vi è un discorso – che è, anzitutto, un metodo – a renderlo vivo, presente, necessario.
In conclusione, potrebbe avere un senso domandarsi se i modelli politici platonico e hegeliano possano essere definiti ideologici o utopici. La questione potrebbe essere affrontata in questi termini. Il discorso ideologico è il tentativo di mascheramento di interessi particolari attraverso l’elaborazione di argomenti e categorie concettuali di carattere universale. L’ideologia è il paravento a cui si ricorre per poter mantenere lo status quo e difendere specifiche istanze. D’altro canto, l’utopia si configura non solo come una radicale critica al suddetto status quo, ma anche e soprattutto come progetto di ridefinizione complessiva della società e delle categorie che stanno alla base della sua organizzazione. Stanti queste definizioni, qui soltanto abbozzate, parrebbe più ragionevole sussumere Καλλίπολις e lo Stato hegeliano nella categoria dell’utopia. Cionondimeno, lo stesso Hegel – e molti interpreti – ritengono che la città ideale platonica non sia un’utopia, in quanto è concretamente realizzabile. Occorrerebbe, però, distinguere due livelli di utopia: un livello etimologico (un non-luogo, la cui attuazione è impensabile) e un livello teorico-tecnico (quello sopra enunciato). Se considerata in questo secondo senso, allora la Καλλίπολις potrebbe effettivamente, con le dovute riserve, essere considerata un modello utopico.
Per quel che riguarda lo Stato hegeliano, le cose stanno diversamente. Certamente si tratta di un progetto razionale e perfetto, che si configura come la realizzazione del principio ultimo e assoluto della realtà. È però anche vero che, per Hegel, la più eccelsa espressione del modello da lui prospettato era proprio lo Stato prussiano, storicamente inteso, in cui lo stesso Hegel si trovava a vivere. Tale configurazione politica era anche intesa come il punto di arrivo dell’intera storia dell’umanità, il culmine della razionalizzazione delle formazioni statuali – dal mondo antico alla contemporaneità. In questo senso, al di là di alcuni ‘tratti’ utopici (che risiedono nella natura razionale e ideale del progetto), la prospettiva hegeliana può essere ragionevolmente considerata una proposta ideologica: mantenimento dello status quo (Prussia dell’epoca), celato dall’imponente strutturazione razionale che ne implica la necessità, la perfezione e l’assoluta razionalità.
Gli spunti proposti in quest’ultimo paragrafo sono, appunto, soltanto spunti. Come tali, necessiterebbero di un ampliamento e di una problematizzazione maggiori, che si rimandano ad altra sede.
Si segnala infine che alcuni temi essenziali per la comprensione del testo hegeliano, come ad esempio il confronto con Rousseau riguardo alle nozioni di popolo, rappresentanza e democrazia, non sono stati nemmeno sfiorati. L’intento del presente lavoro era un altro, ma queste precisazioni hanno la finalità di mostrare ulteriormente – se ce ne fosse stato ancora il bisogno – la complessità e l’inesauribilità degli spunti che si possono trarre dalla riflessione su questi pensatori, a partire dai materiali qui analizzati.
Bibliografia
PLATONE
La Repubblica, a cura di M. Vegetti, Milano, BUR, 201911.
Timeo, a cura di F. Fronterotta, Milano, BUR, 20188.
HEGEL
Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di R. Bortoli, Roma-Bari, Laterza, 2009.
Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di V. Cicero, Milano, Bompiani, 2017.
Note
[15] G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 509.
[16] Ibidem.
[17] Cfr. ivi, p. 515 (par. 303).
[18]Ivi, p. 529 (par. 316).
[19] Ivi, p. 525 (par. 311).
[20] Cfr. ibidem.
[21] In Platone non c’è soltanto trascendenza. Da un lato, il fatto che il sensibile sia plasmato in virtù dei modelli intelligibili fa sì che la presenza dell’ideale nel materiale sia tangibile, presente e costante – anche perché, se tale presenza immanente venisse meno, il sensibile non potrebbe tenersi fermo nella propria identità, determinata inevitabilmente dalle idee; dall’altro, dal punto di vista più propriamente politico, il bene è diffusivo e, attraverso l’agire dei governanti, innerva tutte le dinamiche della vita pubblica della città ideale.
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