ESISTE UNA “FILOSOFIA GIAPPONESE”?
1. Secondo una definizione rigida, la filosofia esiste al di fuori del mondo euro-americano solo a partire dal momento in cui in alcuni paesi asiatici si inizia a pensare secondo le categorie della speculazione occidentale. Un esempio è proprio il Giappone di fine Ottocento. A quell’epoca gli intellettuali giapponesi diedero vita a un processo di trasformazione della loro lingua adottando o coniando nuovi termini e nuovi significati in grado di corrispondere a nozioni come quelle di scienza, religione, politica, filosofia, estetica… Non è che prima non esistessero teorie razionali, forme di fede, discussioni sull’arte di governo o trattati di poetica, ma esse non si erano strutturate secondo le discipline o i modelli analoghi a quelli occidentali.
Se pensiamo di trovare nella storia del pensiero giapponese alcune risposte alle domande scaturite dalla riflessione e dalle strutture di pensiero europee rischiamo di rimanere ciechi all’ordine del discorso e al tipo di razionalità che in quel contesto si sono sviluppati. Soltanto se riusciamo a cogliere il tipo di questioni che emergono in un ambiente culturale e linguistico così distante possiamo poi eventualmente decidere la bontà o meno delle risposte che sono state tentate.
Se partiamo dall’assioma che la filosofia parli greco, da sempre e per sempre, forse non ha senso parlare di filosofia giapponese. Se diamo per implicito che l’essenza della filosofia sia l’indagine del rapporto tra essere e pensiero, ontologizzando l’essere e facendone tutto sommato una categoria del pensiero, allora sembra improprio parlare di filosofia giapponese, o cinese, o persino orientale: a quelle latitudini una visione in cui l’essere sia sostantivo e il pensiero razionale la pietra di paragone definitiva della realtà non trova terreno fertile. Ma la filosofia è davvero solo questo? L’accostamento a un pensiero così diverso dal nostro come quello giapponese è l’occasione per misurare la latitudine di questa domanda» (G.J. Forzani, I fiori del vuoto. Introduzione alla filosofia giapponese, Bollati Boringhieri, 2006, p. 20).
Nella storia del Giappone moderno il termine “filosofia” ha comunque una genealogia e un atto di nascita ben definiti. Nell’arco degli anni tra il 1860 e il 1890 molti intellettuali giapponesi si dedicarono al compito di veicolare nel loro idioma gran parte dei testi, delle teorie, delle nozioni più significative provenienti dalla cultura euro-americana. Inizialmente tradotto con kikyūtetsuchi 幾究哲知 (alla lettera, “ricerca del sapere e della saggezza”), il termine filosofia viene successivamente reso con kitetsugaku 幾哲学, e infine semplicemente con tetsugaku 哲学 (dai kanji che significano rispettivamente “saggezza, chiarezza intellettiva” e “studio, sapere, insegnamento, apprendimento”). Quando ci si riferisce a una “filosofia” o a una “religione” nell’ambito della cultura giapponese pre-moderna (precedente all’epoca Meiji, 1868-1912) bisogna quindi ricordare che si tratta almeno in parte di un’attribuzione di significati che non sono pienamente sovrapponibili all’esperienza di pensiero e di ricerca spirituale di quelle epoche più antiche.
2. La definizione di “filosofia giapponese” – che nello stesso Giappone inizia ad assumere rilevanza verso la fine del xix secolo – si suddivide dunque in diverse linee di indagine. Da un lato va identificato lo studio in Giappone di quelle che sono le correnti di pensiero o le produzioni dei singoli pensatori occidentali; in questo senso, quindi, la filosofia giapponese è semplicemente la ricezione, lo studio, il commento o l’analisi da parte di intellettuali giapponesi (che scrivono sia nella loro lingua sia, spesso, in una lingua europea, a seconda del filosofo di cui sono specialisti) del pensiero di Aristotele, o di Kant, o di Hegel, Heidegger ecc. “Filosofia giapponese” in questa prima accezione significa “filosofia occidentale studiata in Giappone”. Oggi, a livello di istituzioni accademiche, la gran parte dei docenti di filosofia si occupano esclusivamente di pensatori, correnti e concetti occidentali, di cui diventano eminenti specialisti a livello internazionale.
In un secondo senso, a partire dal primo Novecento – grazie in particolare all’impulso originale dato dal filosofo Nishida Kitarō (1870-1945) e alla scuola che a lui fa capo, la cosiddetta “Scuola di Kyōto” – si può parlare di una “filosofia giapponese” originale: una creazione concettuale di alcuni pensatori che non semplicemente si sono limitati a tradurre, divulgare o commentare autori europei o americani, né hanno semplicemente cercato di rinverdire i fasti del pensiero classico del loro paese, ma hanno tentato vie originali di coniugazione di stili argomentativi, impianti categoriali ed esperienze concettuali tra Oriente e Occidente. In questa seconda accezione, la filosofia giapponese segna un’esperienza inedita del pensiero umano a partire da circa un secolo, grazie a un lavoro di tipo interculturale che non ha lasciato immutato l’apparato ontologico e gnoseologico europeo, né ha meramente ripreso nozioni tradizionali dell’Asia orientale. Pensare e scrivere filosoficamente impiegando categorie proprie del lessico occidentale, ma impiegando l’idioma giapponese, ha determinato una serie di risultati inediti e originali, la cui portata solo ora si inizia a misurare nel mondo euro-americano. L’assenza di traduzioni, la ridotta accessibilità dei testi in lingua giapponese da parte degli studiosi occidentali di formazione non “orientalista”, un malcelato pregiudizio eurocentrico hanno finora relegato ai margini del dibattito internazionale questo filone di pensiero – che nemmeno nello stesso Giappone, a dire il vero, ha goduto di un’attenzione generalizzata, venendo studiato da relativamente pochi accademici.
Una terza accezione del lemma “filosofia giapponese” è quella che indica, in senso lato e per lo più analogico, l’insieme delle riflessioni sviluppatesi precedentemente all’epoca Meiji, cioè prima dell’apertura agli scambi con la cultura occidentale dopo il periodo di auto-reclusione, tra il 1638 e il 1853. A questo vasto insieme di concezioni e teorie, che si sono depositate in un corpus testuale molto ricco a partire dai secoli viii-ix, ci si riferisce generalmente con la locuzione Nihon shisō 日本思想 (“pensiero giapponese”), per distinguerlo appunto dalla “filosofia giapponese” (Nihon tetsugaku 日本哲学) che come si è detto nasce tra la fine del xix e gli inizi del xx secolo.
3. Alcuni assunti impliciti e certe strategie argomentative caratterizzano il pensiero giapponese classico e conferiscono ad esso un fondo d’intesa, una coerenza d’insieme per le diverse correnti e tradizioni che si sono sviluppate al suo interno. In primo luogo è da notare la preferenza accordata all’idea di relazione intrinseca: due elementi in rapporto non sono considerati entità autonome e sostanziali che solo in un secondo momento si congiungono; se relazione vi è, essa implica un loro sovrapporsi o intrecciarsi che li fa dipendere l’uno dall’altro. In altri termini, non è pensata una relazione “R” che lega due termini, A e B, in se stessi autonomi; l’identità di A, di B e della relazione “R” è invece dinamica, e produce un campo di variabili interdipendenti in base a cui tutti gli elementi si trasformano e si co-producono.
Un secondo aspetto importante è il differente approccio – rispetto alla tradizione greca – del rapporto “parte-tutto”, che nel Giappone classico non affiora come problema specifico. Il “tutto” non è inteso come somma di parti, piuttosto è la parte ad essere intesa come auto-determinazione dell’intero. Il “tutto”, il macrocosmo, è visto come presente integralmente in ogni frammento, in ogni determinazione o specificazione; la “parte” è dunque un microcosmo in sé completo, è a sua volta un tutto, proprio in quanto riflesso della totalità.
Un’altra caratteristica importante delle strategie argomentative classiche consiste nella scelta di contrastare la posizione teorica di un avversario indicandone la parzialità e la unilateralità, invece della falsità. Diversamente dalla strategia confutativa (elenchos) presente nei dibattiti filosofici greci, ben illustrata dai trattati logici di Aristotele, un pensatore giapponese raramente definisce come falsa o totalmente errata una posizione avversaria. La posizione avversaria viene piuttosto considerata meno efficace perché meno completa o comprensiva; “saggio” è chi sa pensare più globalmente, chi con-tiene e com-prende gli opposti perché non si attacca a nessuna posizione privilegiata, ma riconosce la compossibilità delle diverse posizioni.
4. L’iniziale simpatia che la maggior parte degli studiosi tra il 1870 e il 1890 nutre nei confronti delle filosofie empiriste e pragmatiste euro-americane si trasforma nel giro di pochi anni in un interesse opposto e complementare per le filosofie dell’idealismo classico tedesco; al volgere del secolo Kant e Hegel diventano i filosofi più studiati. Nei primi anni dall’apertura delle frontiere nazionali il lavoro degli intellettuali si concentra nelle traduzioni e nelle interpretazioni dei testi filosofici occidentali (è il cosiddetto “periodo dell’Illuminismo”, fino al 1880 circa), mentre nel periodo immediatamente successivo emergono le prime forti istanze critiche. Questa seconda fase è segnata dal dibattito tra chi sostiene l’importanza della matrice empiristico-fattuale e chi privilegia un’impostazione idealistica. In questi anni fanno il loro ingresso sulla scena altri raffinati intellettuali, profondi conoscitori della cultura e della letteratura europee, come Okakura Kakuzō (o Tenshin, 1862-1913) e Ōnishi Hajime (1864-1900). Un terzo periodo, che dura fino al 1910 circa, è caratterizzato da una sedimentazione dell’influsso occidentale e vede nascere l’istituzionalizzazione accademica della filosofia.
Nel 1911 viene pubblicata la prima opera importante di Nishida Kitarō, Zen no kenkyū (Uno studio sul bene, tr. it., Mimesis, 2017). Essa segna uno spartiacque importante nel modo di intendere e di fare filosofia in Giappone. Nel suo imponente sforzo per una costruzione sistematica e un’elaborazione concettuale originali, Nishida cerca di elaborare una teoria che renda conto sia della specificità del pensiero tradizionale del suo paese e di un necessario radicamento nell’esperienza sensibile, sia degli slanci metafisici del neoplatonismo e della mistica speculativa occidentale. Pur rifiutando l’etichetta di “filosofo Zen”, Nishida conferisce una nuova forma al pensiero coniugando l’esperienza tipicamente orientale della meditazione e del “nulla” (mu 無), riformulata in modo personale, con categorie desunte dal lessico filosofico e teologico euro-americano. Si apre così un secolo nuovo per il pensiero e la cultura dell’arcipelago: nasce appunto una “filosofia giapponese”, non più solo retaggio e commento di testi antichi, né interpretazione e analisi di teorie occidentali, ma originale creazione di concetti in una dimensione interculturale.
Marcello Ghilardi, Professore Associato all’Università degli Studi di Padova
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Per ulteriori informazioni sulla tematica oggetto dell’articolo, cfr., Marcello Ghilardi, La filosofia giapponese, Morcelliana, Brescia 2018.