FILOSOFIA E LETTERATURA: DOSTOEVSKIJ E LA RICERCA DELL’ANIMA RUSSA
La letteratura e la filosofia, in Russia, sono sempre stati ambiti disciplinari intrinsecamente connessi. Tale connessione si articola in due direzioni, quella del piano personale e quella del piano tematico. Sul piano personale, molti letterati sono stati anche filosofi, mossi da interessi intrecciati e complementari, mentre sul piano dei temi la connessione è dovuta al fatto che la letteratura, nelle sue più diverse forme (da quella poetica a quella del romanzo) si è spesso fatta portatrice di istanze propriamente filosofiche. Ciò è avvenuto un po’ per necessità o per convenienza (nel tentativo di evitare censure o rappresaglie), e un po’ per disposizione propria ed intrinseca di quei contenuti filosofici, che solo attraverso la forma letteraria potevano avere modo di dispiegarsi e di esprimersi adeguatamente.
Nostro compito qui è quello di concentrarci sulla figura di Dostoevskij come esemplificazione del rapporto tra letteratura e filosofia in entrambe le direzioni sopra enunciate. Ci focalizzeremo su alcuni luoghi della sua opera e sulla loro importanza ‘profetica’, per quanto riguarda la storia russa (e la lettura che ne è stata data da autori successivi). L’interdisciplinarietà è il tratto distintivo della cultura russa perché l’oggetto che filosofia e letteratura intendono cogliere non è soltanto la Verità in senso forte (che pure richiede uno sguardo poli-prospettico, come indicavano già i medievali), ma anche e soprattutto, a nostro avviso, la cosiddetta “anima russa”. Questo concetto, assai fumoso, a dire il vero, tenta di inquadrare l’identità nazionale russa; se non altro, con il termine “anima russa” si possono intendere alcuni tratti caratteriali comuni del popolo che abita, da secoli, il territorio russo. Vedremo come una parte rilevante delle ricerche di queste discipline hanno come punto d’arrivo proprio questa dimensione profonda, pur non avvedendosene: quando letteratura e filosofia indagano le varie tematiche circoscritte e specifiche, tentano di raggiungere soltanto una sorta di “fine prossimo”, ma il “fine ultimo”, il loro vero e proprio obiettivo, rimane nascosto e non manifesto. Si tratta, appunto, della descrizione di un destino e di un’identità nazionale.
Affrontiamo dunque da vicino la figura di Fedor Mikhajlovich Dostoevskij (1821-1881), il centro tematico del nostro discorso. Seguendo la definizione di M. M. Bachtin1, i suoi romanzi sono veri e propri “drammi di idee”, in cui il portato filosofico, ideale e morale dei personaggi è ciò che realmente conta. N. A. Berdjaev2 ha tentato di descrivere e classificare le intuizioni, le teorie, le previsioni e le figure filosofico-letterarie che Dostoevskij ha portato alla luce. Secondo quest’autore, Dostoevskij aveva già preannunciato, implicitamente, gli obbrobri del comunismo, le sue depravazioni e degenerazioni, il dramma culturale causato dall’innalzamento di un’ideologia a nuova religione (senza Dio). In particolare, l’attenzione di Berdjaev a questo proposito si concentra su due figure della produzione letteraria di Dostoevskij: la figura del Grande Inquisitore e la figura di Smerdjakov. Le descriveremo, per poi passare in rassegna alcune delle interpretazioni che ne sono state date.
La prima figura è presentata da Ivan Karamazov al fratello Alesha, ne I fratelli Karamazov (1880). Il Grande Inquisitore è un uomo che, dopo aver innalzato un regime, inneggiando all’insegnamento autentico di Gesù Cristo, ha subordinato la libertà alla felicità, sfruttando l’indolenza del suo popolo, incapace e disinteressato a governarsi da sé. Gli individui sono disposti a cedere la propria libertà e le proprie aspirazioni in virtù del benessere della collettività, che si regge sulla semplice perpetuazione del sistema. Il Grande Inquisitore è una lucida descrizione di un’attitudine essenziale del popolo russo: l’indolenza. Indolenza significa quindi tacita accettazione del potere degli zar, tacita accettazione – questa la profezia – anche del nuovo ordine socialista, in cui ogni connotazione particolare e iniziativa personale dei singoli viene svilita in nome del bene comune, in nome della felicità.
Per quanto riguarda le interpretazioni di questa figura, Berdjaev2 ne fornisce una di tutto rilievo. Come anticipato, egli vede in Dostoevskij quasi un profeta della Rivoluzione del 1917 e dei tragici eventi che ne sarebbero conseguiti (e che l’avrebbero costretto ad abbandonare il proprio paese, nell’emigrazione forzata del 1922). Dostoevskij aveva già compreso – questo asserisce Berdjaev – che il socialismo rivoluzionario sarebbe divenuto la nuova religione del popolo russo e che, ucciso Dio, si sarebbe abbassato il cielo all’altezza dell’uomo. Ne sarebbe conseguito che quell’evento così radicale, la Rivoluzione, avrebbe mal celato la propria anima cupa e tetra: non a caso, di lì a poco, l’apparato di potere che avrebbe governato il paese si sarebbe trasformato nell’incarnazione perfetta del Grande Inquisitore dostoevskijano, annullando le libertà in nome della felicità collettiva.
In ambito sovietico, invece, ci sono due pensatori che sembrano rifarsi, più o meno implicitamente, alla figura del Grande Inquisitore. Si tratta di Merab Konstantinovich Mamardashvili (1930-1990) e di Aleksandr Aleksandrovich Zinov’ev (1922-2006). La filosofia di Mamardashvili, il “Socrate georgiano”, è incentrata sulla valorizzazione dell’individuo. Tutto il suo pensiero è finalizzato alla restituzione della libertà e della responsabilità ai singoli, privati della loro complessità individuale nell’epoca contemporanea all’autore. L’analisi di Mamardashvili ha infatti come base una fortissima critica al regime sovietico, colpevole di avere di fatto de-responsabilizzato i russi. Questi ultimi hanno scelto la via più facile, ossia farsi governare da altri, cedendo la libertà in cambio della felicità (apparente). Stiamo capendo come la figura letteraria del Grande Inquisitore venga qui implicitamente riproposta, proprio per denotare una caratteristica fondamentale del popolo russo: l’indolenza e lo scoramento a lottare per difendere la propria individualità. Questi tratti caratteristici sono stati sfruttati dal regime per riuscire ad imporsi sulle persone. L’apparato di potere sovietico è, in qualche modo, la riproposizione dello zarismo.
Il Grande Inquisitore (che per Il’ja Grigor’evich Ehrenburg è lo stesso Lenin3 ) promette di farsi carico delle incombenze del potere, a prezzo della libertà dei “sudditi”. Aleksandr Zinov’ev, analizzando l’esperienza dell’URSS , sostiene che il nucleo del suo potere vada inteso come la piena incarnazione del Leviatano hobbesiano, ossia di un sovrano che è il solo intelletto, la sola volontà e il solo cervello della nazione4 . Il Leviatano è il singolo entro cui si annullano tutti i molteplici individui. Per Zinov’ev, il superpotere dell’URSS consisté proprio in questo: privazione di ogni libertà e di ogni iniziativa e annullamento del particolare nell’unico organismo, di cui gli individui non sono altro che cellule. Anche qui, il Grande Inquisitore non viene citato esplicitamente ma ritorna, ineluttabile, a descrivere un’attitudine deteriore del popolo russo. Nonostante il periodo sovietico sia spesso visto come una parentesi, è utile mettere in luce – come è stato appena fatto – i punti di contatto con il passato della Russia zarista e ancora precedente.
La seconda figura filosofico-letteraria di Dostoevskij (sempre presente ne I Fratelli Karamazov) è quella di Smerdjakov. “Fratellastro” dei Karamazov, poco istruito e trattato quasi come servo, ascolta ammaliato i discorsi di Ivan sul nichilismo: se Dio non c’è, tutto è concesso, questo sente dire dal fratello intellettuale. Smerdjakov sente il bisogno di mettere in pratica quelle parole così potenti, che incitavano a gran voce alla violenza. Di fatto, era una violenza inutile, quasi fine a se stessa, ma per Smerdjakov essa rappresentava l’inveramento più degno dei discorsi di Ivan. Per questo, egli uccide il vecchio Karamazov. Si tratta dell’azione che mette in moto le mille parole, conferendo loro verità. Per distinguersi dagli inetti e dagli indolenti intellettuali (gli uomini inutili di cui parlava Belinskij), Smerdjakov uccide, distrugge, realizza quella devastazione tanto anelata nei fumosi pensieri dell’intelligencija. Smerdjakov finisce per odiare Ivan, sentendosi a lui superiore (in quanto egli soltanto aveva avuto davvero l’ardire di trasformare le parole in fatti).
Berdjaev ha intravisto , nella vicenda di Smerdjakov e di Ivan Karamazov, la metafora perfetta per descrivere il rapporto tra intellettuali e popolo in occasione della Rivoluzione del 19172. La “parola di Ivan”, la dottrina socialista, è stata presa alla lettera dal popolo, incarnato da Smerdjakov, e solo così l’incendio rivoluzionario ha avuto modo di divampare. In passato, infatti, quando gli intellettuali hanno provato ad agire autonomamente, hanno fallito. Si pensi alla “andata al popolo” dei populisti nel 1874, in cui gli intellettuali stessi erano passati all’azione, cercando invano sostegno da parte del popolo. Nel 1917, invece, la decisione di agire ha origine proprio nelle fabbriche, e gli intellettuali non possono essere niente di più che promotori e coadiutori di questo terremoto che parte “dal basso”.
Ma proprio l’intelligencija finisce per essere uno dei primi bersagli del nuovo ordinamento: dopo l’assestamento dell’ideologia ufficiale, ogni dissenso da parte degli intellettuali è represso. Berdjaev, costretto ad emigrare nei filosofskij parokhod (“battelli filosofici”) nel 1922, ha sperimentato sulla propria pelle questa repressione (altri, rimasti in patria, finirono addirittura col perdere la vita nei gulag). Il pericolo che le dottrine dell’intelligencija non allineata (specie di quella con interessi religiosi) potevano rappresentare per la stabilità del sistema sovietico è solo una parziale giustificazione della loro radicale condanna. Gli intellettuali sembrano infatti scontare anche una colpa ancestrale, quella di essere un’élite, fin dai tempi delle riforme di Pietro il Grande. Pagano, agli occhi del popolo aizzato, inferocito e poi “domato” dal Grande Inquisitore sovietico, il prezzo delle mille parole non accompagnate da alcun fatto. Pagano, in fin dei conti, la propria cultura.
Il sapere è pericoloso non (solo) perché mette a rischio i regimi, ma perché pone questioni, interrogativi, dubbi sulle cose e su se stessi. Il sapere rende l’indolenza russa incompatibile con una retta coscienza morale, spinge alla complessità e all’autodeterminazione, in un contesto in cui si vorrebbe soltanto vivere felici, senza interrogarsi sui perché e sui per come di questa felicità: ecco perché essa è invisa a chi comanda ma anche (e soprattutto) a chi è comandato. Ogni russo potrebbe riconoscersi nei personaggi di Dostoevskij: il monito di Berdjaev sembra quasi essere un invito alla riflessione per gli “Smerdjakov” e all’engagement per gli “Ivan”.
A partire da quest’analisi, si possono trarre riflessioni sempre valide, universali, più che mai attuali. Queste conclusioni sono però anzitutto rivolte alla Russia, a denotare un tragico errore che questa, per raggiungere il proprio autentico destino, non deve più commettere. La riflessione prende le mosse dalla letteratura, per approdare al futuro della nazione: nel mezzo, ci sono la filosofia, la storia, la riflessione sull’uomo russo e sulle sue contrastanti forze interiori.
Abbiamo tentato di mostrare come il contatto tra filosofia e letteratura, in Russia, possa essere inquadrato nel tentativo di descrizione dell’identità nazionale. Il discorso potrebbe ovviamente essere molto più ampio, ma questi brevi cenni possono essere sufficienti per spostare lo sguardo e l’attenzione su un mondo così diverso ma così vicino a noi, per certi tratti. La riflessione sul ruolo del sapere e sull’indolenza verso la gestione attiva del potere e la predilezione per la delega di responsabilità (e quindi di libertà), è sempre e più che mai attuale.
NOTE
- M. Bachtin, Problemi dell’attività creativa di Dostoevskij, 1929.
- N. A. Berdjaev, Dostoevskij e la rivoluzione russa, pubblicato nella raccolta De profundis.
- I. G. Ehrenburg, Le straordinarie avventure di Julio Jurenito (1946).
- A. Zinovev, Il superpotere in URSS. Il comunismo è davvero tramontato?, tr. it. a cura di D. Staffa, SugarCo, Milano (1990).
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