GILBERT SIMONDON E LA TECNICA DELLA NATURA

Quando si parla di tecnica vengono in mente di primo acchito gli ultimi ritrovati che l’ingegno umano ha prodotti, le nuove tecnologie che trasportano l’umanità alle soglie del futuro, il progresso della rivoluzione industriale che dalla seconda metà dell’800 ha plasmato il mondo e il modo di abitarlo, il potenziale letterario di mondi possibili da scoprire, i rischi connessi ad uno sviluppo indiscrimanto, perché acriticamente festoso, di una volontà di potenza blandita dal campo di realtà via via aprentesi, le previsioni apocalitiche… Ad accomunare queste quotidiane esperienze è il riferimento centrale a quell’attore, il cui ruolo può essere ribaltato, suo malgrado, in spettatore: l’essere umano. Tecnica e essere umano, allora, si trovano su quella medesima linea di confluenza che vede i sentieri incrociarsi, fondersi, contrapporsi e divergere. Tecnica e essere umano si richiamano l’un l’altra, si mettono in gioco vicendevolmente: se la prima è il prodotto più marcatamente umano (ogni prodotto è in fondo il prodotto di una tecnica, di un saper fare), quest’ultimo è la risultante del prodotto tecnico nell’effetto che suscita di rimando, nell’organizzazione che istituisce dal centro gravitazionale del suo sistema solare. La questione antropologica pertanto, in un’era come la nostra sempre più plasmata dalle macchine che noi stessi abbiamo costruito, si fa vieppiù pressante proprio grazie alla presa di coscienza che ogni dualismo dicotomico modellato sul binomio misoneisti/entusiasti della prima ora non può che rendere ragione solamente parzialmente, non avvedendosi delle fecondità filosofiche, della problematica che la tecnica porta con sé.
Pertanto, una considerazione più prudente e attenta della questione ora presentata si rende necessaria, ed è esattamente questo il perno intorno al quale ha preso forma la riflessione filosofica di Gilbert Simondon, il cui impegno intellettuale può rappresentare un punto di partenza assai saliente. Come, difatti, ebbe a scrivere un suo interprete contemporaneo, Jean-Hugues Barthélémy, l’interesse antropologico dà vita a un «humanisme difficile», laddove la difficoltà è garantita dal non appiattimento alle facili contrapposizioni l’un l’altra escludentesi. Un umanismo difficile, allora, deve essere in grado di fornire le ragioni sufficienti per un sorpassamento di ogni forma di ingenuità che vede nell’uomo o il distruttore impenitente che, gaio, cavalca verso la sua fine, o il tabernacolo di una resistenza alla desacralizzazione automatizzata. Per questo il piano sul quale è necessario porsi non può essere quello interno all’ancestralità dicotomica dell’uomo e della macchina, quanto più quello spazio, quel «centro reale» da cui la dicotomia stessa si è generata e da cui continuerà a generarsi:
La morale non risiede né nelle norme né nei valori, bensì nel continuo che si estende dalle norme ai valori, in seno alla loro reciproca comunicazione, colta a partire dal suo centro reale. Norme e valori costituiscono termini estremi della dinamica dell’essere, termini che non consistono in se stessi e che non si sostengono di per se stessi nell’essere (Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e informazione, p. 451).
È da codesto punto di osservazione che le contrapposizioni prendono forma, si individuano e individualizzano, assumono la consistenza che un fare ingenuo eleverebbe a sostanza e squadernano tutte le potenzialità complesse che si trovano in latenza “all’interno” di ciò da cui sono rese possibili. Norme e valori, uomini e macchine, mente corpo – e così procedendo per tutte le giustapposizioni immaginabili – trovano completa unità nel divenire ciò che li differenzia. In fondo siamo sempre alla solita, vecchia quanto la filosofia stessa, questione metafisica dell’Uno e dei Molti, dell’Identità e della Differenza, dell’Essere e del Divenire. Ma è proprio qui che risiede l’originalità del pensiero simondoniano: il problema che si sta ora affrontando riguardante la tecnica non può trovare degna collocazione che se all’interno di un genuino interrogarsi metafisico e di una metafisica (paradossale per giunta) che affonda le radici negli albori del pensiero filosofico: il concetto di Φύσις (physis, natura).
Se Φύσις e tecnica sono da sempre paradigma di ogni antagonismo contrappositivo per eccellenza, con Simondon si presenta uno slivellamento fondamentale che le vede in vicendevole condizionalità. L’uomo, parte della natura, ha la capacità di prolungare la natura in quella congerie di risultati tecnici, psico-sociali, psico-biologici e ecologici che prende il nome di cultura (Barthélémy). Pensare allora la tecnica in questo orizzonte non significa preparare un elogio che magnifichi la potenza umana né tanto meno inneggiare ad una natura antropomorfizzata, ma dare vita ad uno sforzo teorico concreto in vista di una riconciliazione tra natura, tecnica e uomo. Correttamente Barthélémy rimarca che
l’oggetto tecnico, lontano dall’essere un anti-natura, è per Simondon «natura nell’uomo», che non vuol dire semplicemente «natura umana», bensì supporto di una relazione psico-sociale nella quale si prolunga e si supera la vita del semplice vivente (J.-H. Barthélémy, Simondon, p. 28, traduzione nostra).
A rendere ragione di questa relazione è allora un pensiero che abbia la forza di sostenere lo sguardo delle due istanze perifieriche e che sappia dispiegare le potenzialità di quel centro reale di cui prima si accennava. Che sappia avere ben presente gli schemi elaborativi delle conoscenze tecniche senza pregiudiziali antibanausiche di stampo platonico, ma che al contempo non indulga in una romantica veterofilia idealizzante un artigianato quasi sacrale in sé, né tanto meno nella neofilia propria di un’idea di progresso astratto e acosmista. E che sappia, inoltre, integrare la tecnica in un’esperienza culturale più generale nell’ottica di un genuino e contemporaneo enciclopedismo. Da qui, allora, 1) rifiuto di ogni sterile dualismo; 2) centralità cosmica (e oserei dire anche cosmetica, alla luce delle notevolissime pagine di Du mode d’existence des objets techniques sulla bellezza dell’oggetto tecnico nella sua armonica relazione con il milieu geografico-naturale) della tecnica ed 3) enciclopedismo come unità dei saperi parcellizzati nella molteplicità dei domini specifici, saranno il basamento da cui partire per ripensare la tecnica con un pensiero della tecnicità.
Pensiero, però, che deve trovare il proprio fondamento altrove e di cui la tecnicità enciclopedica non può presentarsi che come modificazione, fase individuante e individuata di un processo trasformativo che affonda la sua origine in una divenienza genetica dell’essere stesso: l’«encyclopédisme génétique» allora non puo che rimandare (ma il rimando non va inteso come al rinvio ad un’altra fonte, ad una sorgente più sorgiva, ad una origine più originaria) ad una «ontologia trasformativa» (Tenti, Estetica e morfologia in Gilbert Simondon, p. 21) che assume le forme che di volta in volta si presentano alla sua presa di forma. Un’ontologia in movimento che fa, quindi, della presa di forma, l’in-formazione, tanto il trascendentale dell’essere stesso quanto di ciò che così vi è trasformato. Ciò che la scienza fisica studia, i regni della biologia e della chimica, la materia inorganica, la psiche e le relazioni socio-collettive sono allora fasi che epistemologicamente descrivono l’unità differenziale:
[p]er fase, non intendiamo un momento temporale rimpiazzato da un altro, ma un aspetto che risulta da uno sdoppiamento d’essere che si oppone a un altro aspetto. Questo senso della parola fase s’ispira a quello che prende in fisica la nozione di rapporto di fase: non si concepisce una fase che in rapporto ad un’altra o a molte altri fasi. Vi è, dunque, un sistema di fasi, un rapporto d’equilibrio e di tensioni reciproche; è il sistema attuale di tutte le fasi prese insieme a essere la realtà completa, non ciascuna fase presa per se stessa: una fase non è fase che in rapporto alle altre fasi, dalle quali si distingue in maniera totalmente indipendente dalle nozioni di genere e specie. In fin dei conti, l’esistenza di una pluralità di fasi definisce la realtà di un centro neutro di equilibrio in rapporto al quale esiste lo sfasamento (Simondon, Du mode d’existence des objets techniques, p. 221, traduzione nostra).
È il «centro neutro di equilibrio» ad assurgere a principio di sfasamento, a germe di induzione per i continui e inesausti sfasamenti. L’equilibrio ricercato allora si carica di potenziali e si sovrasatura: un’equilibrio instabile, sopra la stabilità stessa perché da sempre orientato al debordio à la limite. Un equilibrio meta-fisico, ovvero meta-stabile (essendo la stabilità forma tanatologica del non-più-individuabile), a segnare il passaggio dell’essere come essere in divenire, essere che è divenire. L’unità d’essere che anima la ricerca simondoniana trova, raggiunto questo livello di analisi, pieno compimento: se per unità si vuole considerare un astrattismo concettuale o un monismo gestaltico (della forma formata), meno verrebbe proprio la dinamicità dell’essere che ne garantisce la polifasicità senza dispersione; se, però, si intendesse la sola florescenza della Bildung, ovvero della continua formazione, verrebbe a mancare, data la fluidificazione assoluta, quel tanto di stabilità senza la quale sarebbe impossibile lo sfasamento. Per questo Simondon opta per una unità che attraversa chiasmaticamente i limiti, che li attraversa comprenetrandoli ubiquamente: l’unità è più-che-unità così come l’identià è più-che-indentià. Così Simondon:
L’essere non possiede un’unità di identità, come nel caso dello stato stabile, nel quale non si possono verificare trasformazioni; al contrario, l’essere possiede un’unità trasduttiva: in altre parole, esso può sfasarsi in rapporto a se stesso e può straripare da una parte all’altra del suo centro. Ciò che si concepisce nei termini di relazione o dualità di principi consiste, in verità, nel dispiegamento dell’essere, che si configura, a sua volta, come più che unità e più che identità (L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e informazione, p. 43).
È solamente a partire dall’ottica della ricomposizione paradossale tra identià e differenza, tra movimento e stabilità che si può pensare l’unità trasduttiva siccome perno e fulcro della filosofia prima. Filosofia che non può che presentarsi come rinnovato interesse nei confronti della natura essendo essa stessa natura. Lo spinoziano Deus sive Natura viene riaggiornato in Philosophia prima sive Natura, laddove per filosofia prima ha da intendersi l’ontologia nella sua natura genetica. Ed è per questa ragione che si può parlare, nella più-che-unità paradossale, di tecnica della natura: da una parte difatti, la tecnica ha come oggetto la natura, plasma la natura, imita la natura, potenzia la natura. In questo senso la natura è creata dalla tecnica come suo contrappunto. Ciò che non è tecnico viene così a configurarsi come naturale. Dall’altra, però, la tecnica è l’oggetto della natura, è, nel suo essere tecnica nella prima accezione, una fase della natura che si prolunga nell’individualizzazione di un prodotto che proproga l’individuazione. La tecnica della natura è pertanto il luogo del trans-individuale che si individualizza nel mondo fisico, nell’essere vivente e nelle sfere psico-fisica e collettiva.
Di fatto è la portata ontogenetica dell’essere-movimento che si sfasa nelle fasi dell’essere che non sarebbe senza quelle fasi. È la sintesi paradossale di una più-che-unità che non si lascia attrarre e inghiottire nella forza gravitazionale di sostanzialismi dualistici. È l’esser-produttivo dell’essere che rende trascendentalmente ragione della pluralità della realtà. In poche parole, l’esser-genetico della filosofia prima.
L’autentica filosofia prima non consiste in quella del soggetto, né in quella dell’oggetto, né in quella di Dio o della Natura ricercati a partire da un principio di trascendenza o immanenza, bensì in quella di un reale che precede l’individuazione, ovvero in quella di un reale che non può essere ricercato né nell’oggetto oggettivato né in seno al soggetto soggettivato, quanto, piuttosto, al limite dell’individuo e di ciò che vi resta esterno, secondo una certa mediazione sospesa fra trascendenza ed immanenza (Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e informazione, p. 364).
I testi di Simondon qui citati sono:
- L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e informazione, Mimesis, Milano-Udine 2011.
- Du mode d’existence des objets techniques, Aubier, Paris 2012.
La letteratura secondaria riguardo alle opere del filosofo francese citate nell’articolo sono:
- J.-H. Barthélémy, Simondon, Les Belles Lettres, Paris 2014.
- G. Tenti, Estetica e morfologia in Gilbert Simondon, Mimesis, Milano-Udine 2020.
L’articolo è una rielaborazione del contenuto del caffè filosofico tenutosi presso il Liceo Classico “V. Alfieri” e il Liceo Artistico “B. Alfieri” di Asti.
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