IL MORBO E LA CURA
Quello che viene comunemente definito progressismo è propriamente una psicopatia.
È questa la conclusione che soggiace all’analisi storica e filosofica del libro di Paolo Zanotto, intitolato appunto Psicopatia del progressismo. Le radici occulte di una ideologia nefasta (Irfan Edizioni, 2023). Si tratta di una questione che oggi, nel controtempo delle cancellazioni, della biotecnica e della biotecnologia, merita un’urgente trattazione. Una questione, quella del rapporto tra progresso e malattia, che diviene progressivamente manifesta e fulgida, che rivela il proprio inquietante carico agli occhi di chiunque abbia ancora qualche radice.
Se il progressismo sottende una concezione nuovista della storia, dove l’innovazione tout court è considerata sempre e comunque una conquista, la psicopatia può invece essere sostanzialmente catalogata come disturbo della personalità, che tuttavia può estrinsecarsi attraverso molteplici declinazioni, quali per esempio l’incapacità di provare empatia, l’inclinazione alla manipolazione o la megalomania.
Considerato ciò, in quale modo allora la categoria di progressismo, apparentemente politica o culturale, può essere sovrapposta a quella psicologica e clinica di psicopatia? quali sono i punti di contatto tra categorie così apparentemente inconciliabili?
La trattazione, che può trovare un’ottima ispirazione proprio nel libro di Zanotto, meriterebbe certamente uno studio approfondito, tecnico e circostanziato. Per limitarsi a un’analisi sommaria, invece, è possibile formulare talune considerazioni. Non già per ridurre il dibattito a poche sortite, ma per suggerire le tappe di un’eventuale linea di discussione.
Ebbene, in primo luogo è possibile affermare ciò: progressismo e psicopatia esprimono un analogo atteggiamento di ostilità nei riguardi del reale. Entrambi insomma rivelano una malcelata idiosincrasia verso tutto ciò che appartiene al mondo organico e naturale e storico e culturale, verso ciò che esiste come datità.
Per compendiare una simile posizione può essere utile impostare un’inferenza conseguenziale. Infatti è logicamente necessario ammettere che il mondo organico e naturale, come anche quello storico e culturale, abbia una causa. Nondimeno tale questione rinvia necessariamente all’ambito teologico e dischiude un orizzonte di riflessione che concerne l’atto creativo e la causa prima. Una causa che, appunto in quanto prima, è esterna al soggetto pensante, il quale attraverso il reale arriva a esperire la propria condizione di causato, di creatura. Ora, se il reale reca in sé la traccia di una causa prima, di un fondamento; se la causa prima risulta perciò stesso creatrice; se ciò che è creato è una datità, poiché si offre alla conoscibilità; allora progressisti e psicopatici, ostili al reale come a ciò che esiste come datità, rivelano pertanto di ripugnare la creazione. Essi piuttosto si dimostrano accomunati da una propensione alla distruzione, alla decostruzione, non già per opporre nuove creazioni, ma unicamente per avversare il processo creativo in quanto tale, sedimentato nella storia, nel passato, nella tradizione.
La creazione incombe su progressisti e psicopatici come un nemico da abbattere, come un ordine da sovvertire. Tutto quello che rappresenta una fissità, e che perciò stesso è stato conservato nel tempo della storia rappresentando un’immutata via di senso, dev’essere distrutto per saziare l’odio cieco contro le forme create, siano esse prodotto della natura o dell’uomo. Un progetto luciferino e antiteologico o controteologico, che in linguaggio clinico diviene appunto psicopatia e in quello politico e culturale diventa progressismo, poiché entrambi condividono un’analoga intenzione inconscia di distruzione.
Tuttavia, come detto, la distorsione psicopatica può essere diagnosticata in molti modi. Fra i più generali, l’incapacità di provare empatia, l’inclinazione alla manipolazione o la megalomania. Ebbene anche nei progressisti è possibile cogliere sintomi sovrapponibili che, mutatis mutandis, confermano la diagnosi.
Andando in ordine, i progressisti rivelano scarsa empatia. Questo perché la distruzione implica un atteggiamento che oscilla dall’indifferenza al sadismo, ma in ogni caso diametralmente contrario all’empatia. Perché chi ama non distrugge, ma conserva: chi ama una persona, non la ferisce; chi ama un’opera d’arte, non la imbratta né la incendia; chi ama una tradizione, la rispetta e la rinnova. La distruzione del passato e delle forme della storia, dunque, tradisce un comportamento irrispettoso e violento, neocoloniale. Irridere a ciò che per secoli ha rappresentato una via di senso lascia emergere un’ostilità che, per estensione, colpisce il senso in quanto tale. Il progressista è colui che non sopporta il peso e la responsabilità del senso della vita, del destino che diviene missione e lotta e sacrificio. Egli preferisce il senso nella vita, isolato e egoistico, indifferente agli altri.
Per quanto concerne la tendenza alla manipolazione, invece, i progressisti tentano di obliare la storia del mondo e dell’uomo ricorrendo a narrazioni arbitrarie e nuoviste. Questo accade per esempio in ambito sessuale, quando vengono messe in dubbio le datità dei generi sessuali; oppure in ambito pedagogico, quando vengono stravolti i piani educativi mirati a tessere un linguaggio e una cultura comuni, presupposti dell’identità individuale e sociale. Ma se il progressista è manipolatorio quando diviene vettore di narrazioni oblique e irragionevoli, è altrettanto vero come egli sia prima di tutto manipolato, diabolicamente tentato a cedere alla seduzione della distruzione poiché convinto di essere nel giusto. È infatti in ciò che alberga il risvolto luciferino del progressismo: persuadere l’uomo di essere puro, buono e innocente, conquistandone in questo modo la fiducia per poi servirsene per abbattere la creazione.
In ultima analisi il progressista è un megalomane, poiché ritiene di esaurire il senso della vita e del mondo nel perimetro del proprio paradigma e delle proprie convinzioni, inconsapevole che si tratti comunque di un paradigma eterodiretto, manipolato appunto. L’iconoclastia del progressista è desiderio indotto di cancellare l’alterità della storia con la rivoluzione perpetua, con lo stravolgimento continuo di qualsiasi fissità. Persuaso di dover dimenticare quello che gli è stato dapprima imposto di apprendere, il progressista finisce per vivere una contraddizione profonda, una lacerazione interiore che cerca di colmare gonfiando in maniera ipertrofica quello che rimane della propria personalità malconcia. Osservando le macerie fumanti del reale dalle quali sorgono solamente nichilismo e vacuità, il progressista arriva a realizzare inconsciamente di aver partecipato alla distruzione: a quel punto, delegando qualsiasi responsabilità morale, arriva financo a abdicare a qualsiasi progetto universale e finisce per ripiegarsi in sé, in quella fortezza interiore, ovattata e indurita dove si sente al sicuro dal giudizio della coscienza. Diviene pertanto ego puro, staccato dalla storia e dal mondo, facile preda di nuove manipolazioni.
Ebbene la riflessione può naturalmente essere approfondita. Ma quello che si può aggiungere è che il progressismo, in quanto psicopatia, può essere curato. Non già ammiccando al nuovismo; non già accogliendo supinamente qualsiasi rivoluzione; bensì conservando la creazione. Mantenere parole e tradizioni, opere e bellezza, classici e preghiere affinché la storia rimanga cosa viva e nelle occasioni del passato diventi possibile scorgere ispirazione e modelli alternativi.
C’è solo da conservare: pietre animali fiori erbe colline angoli profili muri volte voltoni logge giardini tombe statue pitture finestre orti umidità stalattiti palme ulivi lecci salici ombre luci stagioni libri metope stucchi tavolini cassapanche mestieri proverbi linguaggi cucina utensili fogli di lettera cartoline stazioni […][1].
Chi saprà guardare indietro, avrà conquistato il futuro. Senza temere di offendere il mondo o di rimanerne esclusi, senza abdicare alla verità e alla coscienza per conservare briciole di privilegi o di consolazioni. Poiché sta scritto: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà»[2].
[1] G. Ceronetti, Un viaggio in Italia, Einaudi, Torino, 1983, p. 93.
[2] Mt 16,24-27.
@ILLUS. by GABRIELE DEMARCHIS, 2024