LA SCOPERTA: UN’AUDACE EVASIONE ALLA RICERCA DI SÉ
Non so come il mondo potrà giudicarmi ma a me sembra soltanto di essere un bambino che gioca sulla spiaggia, e di essermi divertito a trovare ogni tanto un sasso o una conchiglia più bella del solito, mentre l’oceano della verità giaceva inesplorato davanti a me.
Isaac Newton
È singolare il fatto che una delle più importanti scoperte geografiche di tutti i tempi, la scoperta dell’America, sia stata fatta da un personaggio tanto determinato da riuscire a superare le sue gravi lacune in geografia. Mi spiego: sappiamo oggi che Cristoforo Colombo sottostimò pericolosamente la dimensione del globo, rifacendosi ai calcoli tolemaici; se non fosse incappato per sbaglio in quel gigantesco imprevisto ribattezzato San Salvador, sarebbe scomparso nel bel mezzo del nulla come molti suoi colleghi. Sappiamo inoltre che una volta sbarcato sul nuovo continente continuò a pensare che Cina e India fossero appena dietro alle colline e che per questo definì indiani una folta e variegata schiera di indigeni intenti a spiegargli che non avevano il pepe che cercava, ma che potevano dargli in cambio patate e peperoni. Ci vollero altri dieci anni perché Amerigo Vespucci capisse che quell’isola gigantesca era in realtà una terra nuova e molti altri per definirla un continente. Se dunque qualche volta vi sentiste filosoficamente o fisicamente disorientati non temete: anche Cristoforo Colombo era una che si era perso.
Non vorrei essere frainteso: Colombo era un abilissimo navigatore, un uomo ingegnoso e la sua più grande impresa non fu tanto riuscire ad arrivare alle Bahamas, quanto saper tornare indietro senza conoscere venti e correnti. Osò molto pur di scoprire, riuscì in ragione delle sue abilità, di una incontenibile determinazione e di una buona dose di fortuna. In altre parole: la scoperta dell’America sembra oggi una storia inventata di sana pianta per farci riflettere sul concetto di scoperta. E l’aspetto più interessante è che non rappresenta un’eccezione, anzi.
Qualcuno potrebbe dire infatti che le scoperte geografiche sono un ambito del tutto particolare: il passatempo di lupi di mare o di personaggi asociali che pur di allontanarsi si sono spinti verso ogni dove. Per dimostrare che non è così, basta aspettare tre secoli, e far rotta verso un ambito assai diverso: la chimica.
Nel 1774 un farmacista svedese di nome Carl W. Scheele, animato da una curiosità fuori dal comune, scopriva l’ossigeno. Durante la sua breve vita, Scheele scovò molti elementi che oggi popolano la nostra tavola periodica, ma fu letteralmente vittima della sua voglia di scoprire (e assaggiare ciò che scopriva): a soli 43 anni fu infatti ritrovato morto nel suo piccolo laboratorio, circondato da numerose sostanze allora sconosciute, delle quali riuscì probabilmente solo a capire che assaggiarle non era stata un’idea sagace. La sua sensazionale scoperta, che condivise con il chimico inglese John Priestley, non differisce molto da quella di Colombo: Priestley e Scheele, navigando perigliosamente oltre le conoscenze dell’epoca, persi in un frammento di realtà invisibile e sconosciuto, avevano individuato qualcosa di molto importante, senza però coglierne appieno il significato. Ci vollero infatti diversi anni perché il grande chimico francese Lavosier, una testa geniale che – è bene ricordarlo – fu violentemente separata dal suo corpo per mano del popolo francese in un impeto di rivoluzionario giustizialismo, si rese conto che l’ossigeno era un nuovo elemento e dopo averne compreso il ruolo nella combustione, gli diede il nome che oggi tutti consociamo.
Vogliamo proseguire? Nel 1896 il fisico francese Antoine H. Bequerel stava conducendo una serie di esperimenti per capire come i sali di uranio esposti al sole fossero in grado di impressionare una lastra fotografica. Dopo aver ordinatamente riposto una lastra fotografica nuova in un cassetto che conteneva anche sali di uranio notò che questi erano in grado di impressionare la lastra anche senza il sole. Così, a rimanere impressionato oltre alla lastra fu anche l’astuto Bequerel, conscio di trovarsi di fronte a un fenomeno sconosciuto. Aveva scoperto la radioattività, ma anche in questo caso ci vollero molti anni e l’impegno di numerosi studiosi per far luce su un fenomeno tanto complesso. Molti degli studiosi che, stregati da questa misteriosa energia, si adoperarono per carpirne i segreti, rimasero vittima delle radiazioni (basti ricordare i celebri coniugi Pierre e Marie Curie).
Potrei continuare, ma spero che il concetto sia chiaro. Sono tanti gli spunti che emergono da questi spaccati. Vediamone alcuni insieme.
La scoperta è un processo completo che fonde individualità e comunità. Una scoperta scientifica è di tutti i suoi protagonisti e allo stesso tempo di nessuno in particolare. Ognuno dei protagonisti che abbiamo citato ha fatto tanto, ma non tutto. L’acquisizione di una conoscenza nuova è dunque il frutto di un lavoro corale, un concerto di menti che si protrae spesso per più generazioni. Un processo che diventa spazio di coesione e coesistenza, un meccanismo collettivo che consente a ogni singolo individuo di entrare in sintonia con la natura. La creatività e l’immaginazione disvelano i misteri dell’universo, ci consentono di prevederne i fenomeni, danzano insieme al mondo in un abbraccio che ci fa sentire parte di una totalità. Allo stesso tempo però, osservare, o meglio vedere, un evento sconosciuto è uno specchio filosofico che riflette la nostra essenza e conferisce senso all’azione del singolo.
Per questo, i grandi pionieri che oggi ricordiamo nei libri di storia non si sono mossi per fama, per soldi, e nemmeno per godere del frutto delle loro scoperte, ma, nella maggior parte dei casi, per il piacere di scoprire. Una lussuria della conoscenza che li ha rapiti, spingendoli verso imprese a dir poco sconsigliabili, non di rado mortali. Perché? Perché, come molti di loro hanno voluto sottolineare, la meraviglia che circonda il processo di scoperta in ogni sua fase, una volta provato, è tale da non poter essere più ignorato. La contemplazione di un’armoniosa verità – diceva il grande astronomo inglese John Herschel – produce essa stessa la più pura felicità e di conseguenza l’esercizio della più elevata benevolenza e moralità. Più simili a poeti romantici che a moderni tecnocrati, i pionieri di ogni epoca hanno risposto con fare pragmatico al richiamo del paradosso socratico «so di non sapere», e hanno deciso di avventurarsi, a costo della vita, nel mare della conoscenza. Se è vero infatti che etimologicamente il termine felicità deriva da felix – l’albero che produce il frutto –, la felicità non è uno stato di quiete stabile, ma il perseguimento di un’attitudine caratterizzante, come l’atto della scoperta. Osservare, capire, conoscere, scoprire e ricominciare. La scienza, sempre parafrasando Herschel e tanti altri suoi colleghi, non è un insieme di nozioni tecniche utili a soddisfare i nostri bisogni, ma uno strumento intellettuale volto a perfezionare questo processo.
Potremmo dilungarci sul tema del ruolo del caso e della dea bendata nelle scoperte – la serendipità – che ha un suo ruolo anche negli esempi citati. Tuttavia nel nostro ragionamento questo aspetto non ha particolare importanza: perché anche il caso è frutto di un’attenta predisposizione, di un’incessante ricerca, della ferrea consapevolezza che possiamo, dobbiamo scoprire.
Piuttosto, se volessimo far tesoro di queste storie per promuovere questo profondo bisogno di conoscere, oggi a scuola, dovremmo spiegare che il cammino è ancora lunghissimo, che vi sono enormi segreti che ognuno di noi può svelare, che le nuove generazioni hanno l’opportunità di vivere quel sentimento adamantino di meraviglia che salva dalla noia, che riempie, che redime. Detta molto semplicemente: dovremmo far capire che la conoscenza non è un mezzo per ottenere riconoscimenti. Conoscere è un esercizio che protegge il reale da una tediosa inconsistenza; un gesto fisico e mentale che permette di intravedere un senso diverso e di emanciparci dall’egocentrismo.
Manca però un tassello fondamentale alla nostra breve riflessione, che parte da questa domanda: il valore attribuibile alla scoperta vale solo per chi ha la fortuna e la bravura di scoprire qualcosa di completamente nuovo; vale solo per Colombo e colleghi? La questione è complessa, ma anche a costo di apparire eccessivamente tranchant direi: no, assolutamente no. Come detto la scoperta è un processo completo che collega individuo e mondo, che trascende l’individualità senza annullarla. La proverbiale felicità dei bambini, secondo pedagogisti e filosofi – per i più scettici potremmo limitarci a citare John Dewey e il suo concetto di esperienza –, risiede proprio in questo processo. La meraviglia di un bambino che scopre il funzionamento di un interruttore non è diversa da quella di Colombo che scopre l’America. In questo senso, quello che la scienza e l’esperienza quotidiana ci insegnano è che la nostra sesquipedale ignoranza (nella nostra vita possiamo essere esperti al massimo di frammenti irrisori all’interno del nostro patrimonio conoscitivo) è anche la nostra salvezza. Se rimarremo consapevoli che la scoperta ha un valore intrinseco, che non si attenua nel corso della vita, allora potremo scoprire l’America ogni giorno. Poco importa che qualcuno prima di noi lo abbia già fatto: conoscere e svelare scorci di reale che avevamo ignorato ci proteggerà dalla noia e ci condurrà a un benevolenza altrimenti irraggiungibile. Come volano gli aerei? Come si forma un temporale? Come fiorisce un fico? Vedete quante scoperte ci possono aiutare a rimanere consapevoli e coscienti?
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