L’ONTOGENESI IN SPINOZA

Il problema di sapere perché esiste qualcosa anziché nulla, ovvero da dove viene ciò che noi intendiamo per universo, può essere indicato con il termine «ontogenesi»: si tratta di indagare il modo in cui le cose arrivano a essere e ad esistere.
I termini di questo problema sono stati trasformati profondamente da Bento de Spinoza (1632-1677). In effetti, il principio di esplicazione causale della natura, designato presso numerose tradizioni con il termine “Dio”, è presentato nell’Ethica come l’essenza stessa della natura. Quali sono le implicazioni di questa definizione? La conseguenza più evidente è che al posto di una Creazione unica, mediante la quale un Dio onnipotente genererebbe delle creature da lui distinte e all’esterno rispetto a sé, Spinoza sostituisce un modello che si fonda su procedure meccaniche di assemblaggio delle cose (prolungando in questo modo la tradizione atomista che risale Democrito ed Epicuro), e ammette un regresso causale all’infinito (come nelle tesi di Giordano Bruno sull’eternità dell’universo). Questi due punti sono essenziali per collocare Spinoza all’interno di una storia generale della questione. Al fine di cogliere tutta l’originalità del suo pensiero, è opportuno andare più nel dettaglio ed esaminare una dopo l’altra le nozioni di infinito, di necessità e di determinismo.
Per comprendere il modo in cui Spinoza ha rielaborato la nozione di essere bisogna prendere come punto di riferimento la concezione di Platone, Galilei e Descartes.
Platone riconosceva solo le essenze fisse, o Idee, come le uniche a «essere» realmente, immateriali e per questo eterne. Le singolarità che «esistono» nel mondo, quelle che noi percepiamo, non sono altro che immagini transitorie e imperfette derivanti dalle prime, inscritte nel divenire della materia.
Questa divisione tra l’essere e il divenire, tra il permanente e l’effimero, tra l’Idea e le immagini, persiste sotto altra forma in Galilei e anche in Descartes. In effetti, per gli autori moderni, il «permanente» non sono le Idee, ma le “regole” o le “leggi della natura”; sono queste ultime che determinano le essenze delle cose singolari e la maniera in cui gli eventi si producono nel divenire. Questo nuovo genere di principi stabili è il prodotto di una decisione di Dio, la quale, secondo questi autori, introduce nell’universo altri due fattori causali: il libero arbitrio dell’uomo, a fondamento della sua responsabilità morale, e l’onnipotenza divina che compie miracoli rivelando agli uomini il dominio di Dio sull’universo.
Il giovane Spinoza, quando inizia a filosofare, riprende esplicitamente la distinzione tra le essenze stabili e le cose passeggere (Trattato sull’emendazione dell’intelletto). Eppure, man mano che elabora il concetto di Dio, definito come un «ente assolutamente infinito», la sua concezione matematica di infinito influenzerà la concezione di una differenza tra l’essere e il divenire. Difatti, un ente assolutamente infinito non può ammettere nulla che possa averlo causato (a monte) né causare qualcosa che sia a sé esterno (a valle): se avesse tanto una causa quanto un effetto, ciò porrebbe un limite alla sua infinità. Di conseguenza, l’assolutamente infinito deve essere concepito come un ente che esiste necessariamente e che non è né causato (aspetto già evidente per il Dio dei monoteismi) né causante (ecco la novità). In questa concezione Dio è, ma non produce nulla. Non è dunque né un artigiano, né un creatore, né un re, né un individuo: Dio non è che il concetto che indica l’essenza dell’esistenza. Tuttavia, dal momento che questa essenza è un infinito assoluto, essa implica necessariamente l’esistenza di un mondo infinito inteso come «una infinità di cose in una infinità di modi»: in effetti, un ente assolutamente infinito contiene in se stesso l’infinità dei mutamenti; e per quanto li contenga tutti non modifica mai se stesso. In questo modo, i due aspetti dell’infinito, Dio o la Natura, si comprendono come una sola e medesima cosa. Dio designa l’ente infinito nella sua semplicità, la Natura l’ente infinito nella sua diversità. Questo essere non può non essere e non può nemmeno non esistere.
Per questo possiamo dire che Spinoza utilizza l’infinito come una leva per riunire le nozioni di essenza e quella d’esistenza in una sola natura, che definisce Dio. Stante questa condizione, non vi sono più essenze permanenti, né un essere onnipotente che pre-esiste al divenire. Il pensiero di Spinoza si pone al di là della divisione tra l’immutabile e l’effimero, là dove semplicemente la deduzione logica a partire dalle essenze coincide, nel divenire, con una sequenza di eventi.
Questa concezione metafisica tuttavia non è che una tappa, e in quanto tale pone un serio problema. In effetti, se si ammette che l’universo si dispiega «tanto necessariamente quanto consegue alla natura del triangolo che la somma dei suoi angoli è uguale a quella di due angoli retti», secondo la ricorrente espressione di Spinoza, allora tutto l’universo sembra determinato da essenze anteriori alle loro proprietà. In altri termini, anche se si reintegrano le essenze nella Natura, il divenire delle cose sarebbe stabilito con così tanto anticipo, quanto ne avrebbe la necessità che presiede al loro concatenamento. L’originalità di Spinoza consiste proprio nel mitigare questo determinismo con la considerazione di una causalità progressiva.
Per comprendere questo passaggio, ricordiamo il modo in cui il fisico Christian Huygens, contemporaneo e vicino di casa di Spinoza a Voorburgh, nel 1665 dimostra che due orologi posti l’uno accanto all’altro si possono sincronizzare comunicandosi vicendevolmente i loro movimenti. Questa scoperta suggerisce a Spinoza l’idea che anche le essenze delle cose si adattano progressivamente le une alle altre. Così, la nozione stessa di essenza, che egli aveva abilmente attribuito a Dio per integrarne l’esistenza, si dimostra duttile e flessibile quando la si applica alle cose singolari. Perché? Perché anziché fondarsi su un modello geometrico che presuppone definizioni immutabili per delle essenze definite, per affrontare la questione dei corpi Spinoza ricorre a un modello fisico che rileva dei movimenti in grado di strutturarsi in coerenza e di sincronizzarsi. L’aspetto della natura si ritrova completamente trasformato.
Così, esattamente come la nozione di infinito ha sconvolto i rapporti di causalità tra Dio e Natura e li ha fusi l’uno nell’altro, lo studio dei movimenti che definiscono i corpi andrà a rovesciare a sua volta la necessità che determina le cose e le loro relazioni. Infatti Spinoza propone di considerare che non ci sono prima la cose e poi la loro messa in relazione (secondo un approccio atomistico o individualista), e che non ci sono nemmeno prima le relazioni, e poi la loro individuazione soggettiva (secondo un approccio continuista). Egli supera questa divisione con la concezione simultanea della possibilità di descrivere intellettualmente delle essenze astratte immutabili, che possiedono proprietà e consentono rapporti deduttivi, ma anche dell’integrazione nel divenire dei cambiamenti progressivi di natura, che possono essere intesi nelle cose singolari come modificazioni nei loro rapporti di moto e quiete. In questo modo, l’opposizione tra ciò che è immutabile e ciò che è mutevole viene annullata non solo in Dio, ma scompare anche in qualsiasi cosa singolare.
In sintesi, Spinoza risponde alla questione dell’ontogenesi con una concezione matematica rispetto a Dio e una mobile rispetto alle cose singolari. È possibile riunire questi due approcci? La risposta è affermativa, e costituisce l’aspetto più originale di Spinoza. Si tratta dunque di intendere l’ontogenesi non solamente come una «creazione continua», ma come una azione divina, necessaria, realizzata dalle cose stesse.
Difatti, così come la concezione dei due infiniti matematici permette di rendere conto dell’esistenza di un mondo (perché un’infinito immutabile racchiude variazioni all’infinito), si può dire, reciprocamente, che le cose dell’universo non cessano di manifestare mutamenti che esprimono eternamente Dio. Questa reciprocità tra essere e divenire ha una conseguenza singolare: essa significa che il divenire del mondo, lungi dall’essere stato già determinato, determina il suo essere man mano che un numero infinito di sequenze causali vi si incontrano e che i loro equilibri si stabiliscono. Così, il necessitarismo di Spinoza non significa che tutto è determinato a priori, ma che tutti i determinismi si sincronizzano e si equilibrano senza posa, in modo tale che la necessità assume delle forme singolari… in modo casuale.
Per spiegarlo dobbiamo tener presente che dal punto di vista di Dio non c’è “predeterminazione” possibile; tutti i determinismi sono in atto e solo la loro disposizione determina man mano quale successione causale viene cassata, quale favorito etc. A questo livello d’analisi, Dio si determina da se stesso attraverso le cose singolari. In altre parole esse lo creano, lo fanno mutare e lo modulano in eterno, per la ragione che esse non sono realmente distinte le une dalle altre: ognuna si determina mediante le sue relazioni con delle altre, tra le quali ognuna si determina a sua volta attraverso altre relazioni, e così via all’infinito. Ed è proprio così che Dio non cessa di esprimersi per mezzo di infinite improvvisazioni derivate dalle cose stesse.
L’aspetto più interessante di questo concetto risiede tanto nell’infinito intreccio delle cose tra di loro quanto nella libertà che esso restituisce loro. Difatti la libertà che consegue all’accidente raggiunge infine il determinismo della necessità grazie all’azione del divenire: nulla è previsto prima di ciò che si produce, ma ciò che si produce rivela costantemente in che cosa consiste la libertà, detta anche la «libera necessità». Proprio come Dio si dispiega nella natura, la libertà di essere si unisce a quella di determinare e di essere determinato.
In conclusione, teniamo come punto fermo che per Spinoza l’essere si manifesta in tutti i punti dell’universo, dal momento che ogni cosa che esiste esprime una forza determinante che, in relazione con le altre, incontra degli antagonisti o degli alleati con i quali essa produce (o no) effetti locali. In questo senso si potrebbe dire che Spinoza fa esplodere la nozione stessa di “ontogenesi”, poiché non c’è un “essere” o una “realtà” unica di cui dobbiamo rendere conto. Avendo assunto una forma talmente unificata, la questione può essere posta solo a Dio, il quale risponde a ogni istante attraverso i mutamenti dell’universo. Si può ancora aggiungere che la domanda sull’origine dell’universo, in apparenza astratta, implica una grande sfida per la riflessione: non è esattamente quella di un soggetto pensante che si domanda da dove venga la sua coscienza? Quando la si pone sotto questa forma, essa apre altre prospettive che avrebbero bisogno di ulteriori discussioni.
@ILLUS. by MAGUDA FLAZZIDE, 2022
A me la parola ontogenesi continua a sembrare una contraddizione. L’essere (onto) è ciò che è da sempre e per sempre e non può nascere o morire né generare o corrompere. La genesi (nascita o creazione) si riferisce a qualcosa che inizia a esistere…
Ora sia giusta l’una o l’altra tesi mi pare che determini più che altro confusione l’usare una parola che sembra riferirsi a entrambe, perché di certo non possono essere giuste entrambe. Siccome qui si sta cercando di interpretare Spinoza come eternista dinamico, magari potrebbe essere una parola più appropriata “ontodinamo”. C’è poi da domandarsi se non sia un ricadere nel mondanismo il pensare che Dio possa mutare, anche solo nella ricombinazione delle sue parti. Le linee divisorie che permettono la attivazione-disattivazione delle tessere del puzzle non sarebbero divine e lo status delle tessere divine sarebbe duplice (attivo o inattivo) oppure, se lo si considera uno, identico nell’attività o inattività delle stesse, avendo queste la loro realtà nella loro determinazione.
La sfida di pensare una ontogenesi rigorosa consiste proprio nel fornire comprensibilità logica alla novità, strappandola dalla dicotomica contrapposizione “tutto è nuovo” / “nulla è nuovo”. Penso che la portata massima consista proprio nella possibilità di pensare l’Essere, ovvero Dio, nella dinamicità propria del paradosso (che è ben diverso dalla costrizione della contraddizione): l’unità che è più che unità (come amava dire Simondon) perché unità di sé e del suo opposto. Direi che il “mondanismo” è proprio la caratteristica saliente di una considerazione paradossale di Dio perché implica tanto l’attualità essenziale (eterna) quanto l’attualità esistenziale (temporale). Eternità e temporalità sono i poli disgiuntivi del paradosso senza i quali il paradosso non esisterebbe: altrimenti l’intera riflessione filosofica si trasformerebbe, con dinamica acosmista, in una negazione del mondo a tutto vantaggio di un astrattismo che, dal mio punto di vista, perderebbe di mordente proprio perché non si interrogherebbe sulla natura delle cose che vi sono.
Che poi Spinoza non abbia portato a pieno compimento tale intuizione (la paradossalità di Dio) è manifesto; ha però aperto una strada che ritengo essere succulenta!
Ho dei dubbi sul fatto che spinoza distingua tra essenza (Dio) ed esistenza (mondo). Altrimenti che panteista sarebbe??? Ma non conosco a sufficienza il suo pensiero per dirlo con certezza…
D’altra parte faccio notare questo: novità in senso assoluto è impensabile, poiché l’Assoluto è l’Universo considerato quale Tutto (spazio-temporale / materiale o formale che sia). Quindi – in senso Assoluto – “novità” significa “diversità”, non assoluta, perché sarebbe un Altro Universo, ma relativa ossia diversità specifica della parte con la parte all’interno dello stesso Universo, la Totalità.
Diversità (ossia novità) significa dunque specificità mereologica, che è relativamente diversa da tutte le altre e assolutamente identica (universa) a se stessa e fa parte dell’Universo (ossia “Se stesso”).
Ogni parte dell’Universo così è novità rispetto alle altre parti e conformità con se stessa.
La parola “novità” non aggiunge ulteriore significato a “parte”, “diversità relativa”, “specificità astratta”…
L’Universo è invece qualunque cosa, entità generica. Ossia con la parola “Universo” indichiamo qualunque cosa. E con “Nulla” ciò che gli è diverso…
Secondo me il problema di fondo è proprio la concezione merceologica: essa vede il mondo secondo il modello gestaltico, della forma già formata e non più formabile. La parte se si parte da un intero già costituito, impedendosi di coglierlo nel suo divenire. Mereologicamente, la novità sarebbe una parte in più, ma se la parte si definisce parte a partire da un tutto di cui è parte, da dove verrebbe la parte nuova? Non sarebbe parte, perché non sarebbe parte dell’intero (essendo la parte definibile a partire dall’intero). Per cui: o ritieni la novità parte relativa – ma abbiamo visto essere un controsenso perché una parte in più scompaginerebbe l’intero (che senza quella parte in più non sarebbe intero e dunque la parte in più non sarebbe parte perché priva di un intero); o la espungi del tutto dal panorama filosofico – cosa che è lecita, ma a scapito di negare la concretezza della realtà che verrebbe così ricompresa nell’astrattismo formalistico e tautologico.
La filosofia (nome che non apprezzo) è ontologia (discorso su ciò che è), che sì, è tautologia (discorso su ciò che è se stesso) poiché l’essere essendo è uguale a se stesso. Se così non fosse allora non sarebbe e così diverrebbe: si starebbe affermando la verità eteronoma, ossia “tutto scorre tranne che tutto scorre”. La verità della reologia, antitesi della proposta tautologica dell’ontologia. Ma dire che tutto diviene è negare che vi sia alcunché di eterno, ossia negare Dio.
L’ontologia comunque nulla ha da dire. Ha solo da ricacciare le parole in gola ai diavoli che, importunando gli umani, provano a corromperli con discorsi contraddittori. La Realtà è reale quando nessuno parla e lo è né più né meno quando qualcuno parla. Il significato dei discorsi non invalida né valida alcunché.
In ogni caso la novità in assoluto non può essere. Perché, in assoluto, cioè kath’auto, secondo se stesso, qualcosa è identico a se stesso. Non può non essere identico a se stesso nel mentre che è in atto. Ciò che è identico al suo negativo è la potenza e la potenza, nel caso, non si fenomenizza che in atto. La novità è dunque di un qualcosa rispetto a un qualcos’altro, ossia relativa, pros ti. La novità, la diversità, può dirsi solo se si paragona una parte con un’altra parte.
Domani sarà sempre nuovo rispetto a oggi, ma non sarà mai nuovo rispetto a domani.
Ieri è ieri, oggi è oggi, domani è domani. Ogni momento di vita è uguale a se stesso.
Così parlò The Doomstah
Se ieri è ieri e oggi è oggi e domani e domani – cosa che nessuno negherebbe – è perché vi è ieri, oggi e domani. Se tutto fosse tautologico avremmo una serie di 1,1,1… anzi, meglio ancora un solo 1 e basta cosicché ieri non sarebbe ieri come oggi non sarebbe oggi né domani domani!
Se l’essere fosse tautologico, allora non resterebbe che il silenzio adorante: ma come potrebbe parlare allora The Doomstah, se predica il silenzio? Ah, ecco il primo diavolo che scaglia la pietra del peccato: “così parlò The Doomstah”!
“…l’assolutamente infinito deve essere concepito come un ente che esiste necessariamente e che non è né causato (aspetto già evidente per il Dio dei monoteismi) né causante (ecco la novità). In questa concezione Dio è, ma non produce nulla. Non è dunque né un artigiano, né un creatore, né un re, né un individuo: Dio non è che il concetto che indica l’essenza dell’esistenza.”
Che Dio non possa creare non è proprio una novità introdotta da Spinoza. Diciamo che Spinoza ha potuto dirlo senza incorrere nelle persecuzioni della Chiesa.
2 Quod deus non potest generare sibi similem. Quod enim generatur ab aliquo, habet principium aliquod, a quo dependet. Et quod in deo generare non est signum perfectionis.
3 Quod deus non cognoscit alia a se.
4 Quod nichil est eternum a parte finis, quod non sit eternum a parte principii.
5 Quod omnia separata coeterna sunt primo principio.
Queste sono alcune delle proposizioni condannate nel 1277. (Il punto 2 è stato in parte ritrattato, anche per Tommaso Dio non può creare un altro Dio).
Il succo è che Dio, eterno, non può avere niente a che fare con ciò che è temporale. Dio non può generare l’altro da sé (2). Ammesso (e non concesso) che possa non può che eternizzare da sempre anche le cose separate (5) conoscendole. Se le cose separate non sono eterne, allora Dio le ignora (3). In ogni caso non vi è nulla di eterno alla fine che non sia eterno già dall’inizio (4). In effetti è questo che si intende con eternità: essere da sempre e per sempre, senza modificazioni.
Come scrive Rovere, la creazione non è l’atto di cesura da un nulla ad un qualcosa, ma l’attività formativa stessa dell’essere, ovvero di Dio (in quanto ens perfectissimum).
Certo, in passato i filosofi medievali condannati nel 1277 avevano proposto un’idea di unità della forma che però è presente in Spinoza come versione migliorata e dinamicizzata (molto probabilmente sotto l’influenza di Crescas e del platonismo medievale ebraico). Direi che il naturalismo ontologico di Spinoza (non pienamente ontogenetico pertanto) si connoti come mediazione tra platonismo e aristotelismo.
Non servono i filosofi del 1277, qualunque deficiente è in grado di capire che se Dio è l’eterno, l’immutabile, allora non può creare, ossia fare qualcosa che prima non c’era… altrimenti si modificherebbe.
Quella cazzabubbola del Dio dei cristiani e simili che crea è evidentemente un test per valutare la subalternità dei comandati. Se ripetono senza obiettare cose contraddittorie come “Dio crea” allora o rinunciano a ragionare ed eseguono solo ordini oppure mandano giù il rospo e fanno finta di stare al gioco. Gli obiettori condannati fallivano il test… non erano dei buoni servetti.
P.S. Perché conciliare due dottrine palesemente sbagliate come aristotelismo e platonismo? La missione filosofica è conciliare parmenidismo e democritismo o nella loro versione dei giorni nostri teoria della relatività e fisica quantistica.
In realtà nessuno parla di cristianesimo: Spinoza era ebreo difatti. La teoria della creazione era rigettata dallo stesso Spinoza e il ruolo teologico del dogma della creatio ridotto a espediente politico già nel suo Trattato teologico-politico. Che si neghi la creazione, però, non significa negare l’attività che Dio è (non attività di Dio, ma attività che è Dio): la natura naturata non è pertanto troppo diversa dalla natura naturans! Dio è tanto natura naturans quanto natura naturata: quale affermazione maggiore di Dio si può pensare di avere? Nessun teologo è riuscito a dire tanto…
Ottima l’idea di sintetizzare quantistica con relatività, ma è in fondo la riproposizione della sintesi tra Platone e Aristotele! Se la relatività è la molteplicità singolarizzata di stampo aristotelico (certamente non sostanzializzata, ci mancherebbe), la quantistica è la riproposizione della Χώρα platonica in ambito scientifico. Ebbene, essendo però ambiti scientifici, non hanno altra portata che natura epistemologica (lo stesso Bohr ha affermato che la meccanica quantistica non descrive il mondo ma l’informazione che noi ricaviamo dal mondo).
Sono ambiti imprescindibili per un accorto ragionamento filosofico che non si perda in strampalate filippiche antiscientiste, ma non possono ridurne l’ampiezza: nessun riduzionismo pertanto.