NAGARJUNA, L’INDIANO CHE METTE L’OCCIDENTE CON LE SPALLE AL MURO
La domanda sulla totalità, sul senso del tutto, non è soltanto occidentale. Siamo in India, tra il 150 e il 250 d.C.; un monaco, Nagarjuna, scrive un’opera, dal titolo di ardua pronuncia (Madhyamakakarika), in italiano Stanze della Via di Mezzo[1].
Questo libro è in aperta polemica con le correnti dogmatiche del Buddhismo, e si pone l’obiettivo di rievocare e reinterpretare l’autentico messaggio del Buddha, rifondando quell’orientamento teorico-pratico, in qualche modo tradito dalle scuole buddhiste: la nuova scuola di pensiero che Nagarjuna, di fatto, inaugura, è il Madhyama pratipad, “la Via di Mezzo”, per l’appunto. Invece di chiederci come potesse apparire, ai suoi contemporanei, la filosofia di Nagarjuna, faremmo meglio a cercare di comprendere che significato e che valore può avere quella filosofia per noi, che la leggiamo 1800 anni dopo, relegandola – a priori – ad un mondo geograficamente e culturalmente troppo lontano dal nostro Occidente, la nostra terraferma, il luogo – così pensiamo – che meglio di ogni altro conosciamo. Così, forse, vedremo che Nagarjuna ci insegna a mettere in discussione il nostro monopolio assoluto su un certo armamentario filosofico, che riteniamo per l’appunto “occidentale”; la sua filosofia decostruisce una certa parte di questa strumentazione servendosi di metodi anch’essi considerati, poco avvedutamente, dominio degli occidentali. Pare allora sensato far “dialogare” – in forma indiretta e fittizia – quest’interessante monaco indiano con i “campioni” del nostro pensiero; forse potremo così aprire il sentiero inconsapevolmente tracciato da Nagarjuna, che ha come destinazione finale il superamento dell’Occidente filosofico. Ed è proprio questo superamento – in altre forme e in altri modi – l’implicazione primaria e fondamentale di un pensiero altrettanto inattuale ed ambizioso, che nel nostro mondo nasce e da questo fugge, eternamente lontano.
La filosofia di Nagarjuna si rivolge alla Totalità. Se l’intento metafisico è audace, le modalità con cui quest’intento viene raggiunto hanno dell’inaudito. Il Tutto, in Nagarjuna, prende il nome di yatha-butha. Si tratta della totalità dell’esistente? Sì. Si tratta quindi della totalità di ciò che (ci) appare? No; e per un motivo molto semplice: noi viviamo il vero e vediamo il falso. Nagarjuna mostra che l’intelletto umano vede il mondo all’insegna della “relazione”: relazione di causa-effetto, cronologica, spaziale, di moto, numerica, d’identità e di differenza, tra soggetto e oggetto, tra sensi e intelletto, relazione in ogni accezione possibile e pensabile del termine. Il mondo ci appare in virtù di questa categoria fondamentale, dalla quale discendono logicamente tutte le altre – quelle citate sopra, per intenderci; l’insieme delle categorie derivate dalla relazione è, in ultima analisi, gran parte dell’armamentario argomentativo e concettuale della filosofia, soprattutto occidentale. Come anticipato, per la Via di Mezzo il mondo non è come ci appare. La verità è il mondo (lo yahta-butha), ma il mondo appare diversamente da com’è. Lo yatha-butha è immobile: è un tutto senza parti, il suo significato autentico è quasi un concetto limite. L’assunto fondamentale è che una qualsiasi relazione rende impossibile pensare la totalità di ciò che esiste – gli echi neoplatonici non mancano. Nel Tutto, quindi, non ci sono relazioni, nulla si distingue dal resto – non ci sono unità, non hanno senso i principi logici di identità e non-contraddizione; non c’è uno spazio od un tempo, non c’è un prima o un poi, perché l’avvicendamento degli istanti metterebbe in relazione “frammenti d’essere”, e né le relazioni né i frammenti possono avere senso. Nagarjuna, procedendo con un rigore degno di un’opera di Aristotele, suddivide il suo trattato in vari capitoli (Esame delle relazioni causali, Esame degli elementi fondamentali e composti, Esame dell’oggetto e del soggetto e così via…), in cui formula ipotesi per assurdo e argomenti ineludibili per mettere in crisi i concetti di materialità, sensibilità, intelletto, conoscenza, soggettività, oggettività, causalità, potenza e atto, esperienza, dialettica, di elemento fisico; inconsapevolmente, appunto, Nagarjuna chiama in causa Parmenide, Zenone, Empedocle, Platone, lo stesso Aristotele, l’empirismo inglese, Hegel… Non si tratta propriamente di un pensatore sistematico, quanto piuttosto di un grande decostruttore, o di uno scettico dal grande stile.
Nagarjuna ci permette però di intravedere una dimensione che sfugge a qualsiasi categoria del nostro pensiero. Da un lato, il mondo, il nostro terreno sicuro, la dimensione in cui l’intelletto ci permette di pensare la realtà in un certo modo, a certe condizioni; dall’altro, lo stesso mondo che noi vediamo in ogni istante (e di cui facciamo parte), ma nella sua autentica verità, spoglio da ogni veste mistificatrice. La verità la possiamo intuire, ma mai comprendere; per farlo, dovremmo fare a meno del nostro conoscere, che inevitabilmente interpreta in base alla categoria di relazione e questo perché per primo si pensa come “parte di un tutto”. Il senso autentico del Tutto sta al di là della distinzione tra tutto e parti, trascende questa differenza – che è già negazione del Tutto.
Il dualismo epistemologico che si delinea nel pensiero di Nagarjuna va ben al di là della distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno… Ma andando molto indietro nel tempo, fino ad arrivare all’epoca che segna la nascita della filosofia occidentale (VII-VI sec. a.C., più di 700 anni prima di Nagarjuna), possiamo forse intravedere un modo ancor primitivo ma altissimo di pensare la realtà. Come ci suggerisce Giorgio Colli, l’ “enigma” è il concetto chiave per comprendere la natura del sapere filosofico nascente, che è invero il risultato del processo di decadenza della sapienza e della religiosità arcaiche; in questo contesto, la realtà dei fenomeni è disseminata di enigmi, gli stratagemmi con cui la divinità nasconde agli uomini la realtà autentica delle cose, che pur loro hanno davanti costantemente, senza però avvedersene.
La “crudeltà” del dio, che nasconde il vero all’uomo (e quindi nasconde il vero a se stesso), è un vero e proprio principio epistemologico della prima grecità, fino a Parmenide (o a Platone). Il mondo è un mistero e la verità non è “altrove”: la verità è dinanzi a noi ma siamo incapaci di coglierla. Nei pensatori “di mezzo” – manco a dirlo – tra l’età della sapienza e quella della ragione, il ruolo del dio che cela la verità è fondamentale. Basti pensare ad Eraclito, quando scrive che «la natura ama nascondersi» (DKB123), o che «gli occhi e le orecchie sono cattivi testimoni per gli uomini che hanno anime barbare» (DKB107), o che, ancora, gli uomini «non sono in accordo con il logos che governa tutte le cose (…) e ciò che essi incontrano ogni giorno risulta a loro estraneo» (DKB72). Man mano che ci si allontana da questo scenario filosofico, aurorale e crepuscolare ad un tempo, quel senso implicito che ritroviamo nella filosofia di Nagarjuna è sempre più distante dalle modalità del pensarsi da parte del pensiero occidentale. I punti di contatto non sono mancati – si veda la critica alla causalità di humiana memoria – ma è sempre venuto meno l’atteggiamento di iniziale rifiuto o non piena adesione nei confronti degli strumenti dell’intelletto umano, che l’Occidente ha invece considerato adeguati, a prescindere, per conoscere la realtà.
Forse solo in ambito letterario possiamo, intuitivamente, avvicinarci a comprendere il senso dello yatha-butha. Si può pensare a una splendida novella di J. L. Borges, dal titolo Thlön, Uqbar, Orbis Tertius, in cui viene presentato un universo possibile, frutto di un esperimento mentale, che non è governato dalle nostre leggi di pensabilità. A Thlön, non c’è materia, non c’è spazio, non c’è tempo; sono impossibili i soggetti e gli oggetti, ogni tentativo di catturare la realtà in una formulazione veridica è una goffa illusione, tant’è che «i metafisici di Thlön non cercano la verità, e nemmeno la verosimiglianza, cercano la meraviglia». Ed è lo stesso Borges a ricondurre l’impossibilità di formulare verità all’ambito del linguaggio, che è già violenza sul mondo e denaturazione del reale.
In Madhyamakakarika, a ben vedere, si può trovare quasi tutto: un’audace metafisica, improntata al superamento di se stessa; una dialettica stringente, che è cosciente dei propri limiti e li denuncia, oltrepassandoli; una sorta di primitiva “filosofia della mente”, che indaga le strutture ineliminabili nello “stare al mondo” per come noi lo conosciamo, insite nell’animo umano; rigorose riflessioni sul numero e sulla sua (in)capacità di afferrare pienamente il significato del reale; una lucida critica alla trascendenza metafisica, che affonda le sue radici nella Destruktion della materia e dello spirito come categorie del pensiero. Ma soprattutto – ed è forse questa l’intima ossatura del pensiero di Nagarjuna – questo libro ci pone dinanzi una questione, quella della “trascendenza epistemologica”, potremmo definirla così. In fin dei conti, dove sta la verità? In un altro mondo (sarebbe questa la strada della trascendenza platonica, da cui Nagarjuna ci mette in guardia), o piuttosto qui nel nostro, a nostra insaputa? E come potremo trascendere noi stessi per ritrovare, nella Beatitudine del vero, noi stessi? Il cammino è aperto.
[1] Le “stanze” sono l’equivalente delle strofe, dei paragrafi.
BIBLIOGRAFIA
– Il Cammino di Mezzo, Nagarjuna; a cura di M. Meli e E. Magno, UNIPRESS, Padova (2004).
– La nascita della filosofia, G. Colli; ADELPHI, Milano (1975).
– I Presocratici: prima traduzione integrale con testi originali a fronte (Hermann Diels e Walther Kranz), a cura di G. Reale; BOMPIANI, Milano (2006).
– Ficciones, J. L. Borges; EMECÉ, Buenos Aires (1956) – la traduzione dell’estratto è di chi ha scritto l’articolo.
N.B.
Per una comprensione completa del pensiero di Nagarjuna, si rimanda alla lettura de Il Cammino di Mezzo e delle altre opere dell’autore. Quella qui presentata è un’interpretazione, che non pretende affatto di aver esaurito le possibili letture del libro in questione.
@ILLUS. by PATRICIA MCBEAL, 2020