VERITA NON SERVE (Parte II) – CHE CERCHI?

Continua da “Verità non serve (Parte I)” (qui).
Veniamo al tuo discorso, in cui scrivi:
… il fatto di sapere la Verità come può farci essere Verità? Dire che siamo gli Attributi di Dio, in realtà, non implica che noi siamo Dio. Certamente Dio è i suoi Attributi, ma possiamo affermare egualmente che i suoi Attributi siano Dio?
E cui io rispondo scrivendo che il sapere-che non è da intendersi come il Sapere, che – ribadisco -, è Essere. Sapere-che il Sapere è Essere è dicibile consapevolezza dell’Assoluto, ossia consapevolezza di quali siano le condizioni per cui l’Assoluto sia tale, ossia conoscerne le implicazioni. Tale consapevolezza sopraggiunge, per esempio, affrontando il discorso sull’Assoluto, la Sua unità e la Sua scienza. E se sostieni che “Verità è Una e Unica” senza sostenere che la Verità, l’Eternità, sia l’incontraddittorietà propria di ogni posizione, forse è perché quel discorso lo lambisci soltanto.
Come ho scritto, infatti, Verità non è contenitore, ma ineccepibilità dei concetti. Tu, mi pare, La pensi come contenitore dei contenuti senza che Quella ne sia contenuta. Il problema è che i contenuti sono le forme, gli attributi, se li rimuovi quali non-Verità, quali non-Eterni, la Verità permane priva di aspetti. E la scienza da parte di Verità degli aspetti (e di sé stessa) è anch’essa un attributo.
Per quanto Dio sia un nome (comodo per brevità, altisonante e intimidatorio per tradizione), un Dio così deficiente, sistenza semplice priva di quiddità, i cui attributi sono Suoi senza che siano Lui e solo temporaneamente, sarebbe essenzialmente non molto differente da un morto.
Questo per chiarire che è tua tesi che “l’Essere è intero e Tutto in ogni cosa, Identico a sé in ogni punto non essendo però ogni punto identico all’Essere” e non mia, che invece afferma l’Essere quale Identità con sé di ogni punto.
Se poi scrivi di “incroci” e “svicoli” allora, differentemente dal tuo altro discorso, ti riferisci a un ente tra gli enti, non alla Verità che è gli enti senza esserli. La Verità come la intendi tu, perlomeno in parte del tuo precedente discorso, non può apparire se non è la propria apparizione. Non è forma. Non è determinazione. Piuttosto nel mio discorso, in cui Tutto è Verità, può manifestarsi almeno la consapevolezza che la Verità è, mentre Verità non può smarrirsi.
Proseguendo affronti la questione dell’infinito che io ti dissi essere problematica e centri un punto dicendo che quello, l’infinito, il tutto, non può essere compresso in un modello, in una formula, nelle parole. Ma non perché “la costruzione di un modello impone una costrizione al tutto, tutto che deve essere fatto combaciare al modello“, in quanto il modello che include tutto ed esclude niente è l’unico che permette di affermarne la presenza in qualunque aspetto del reale. Appunto per la già citata proprietà del Tutto quale totalità intrinseca assiologica: l’Essere è tutto intero in ogni punto di sé stesso. In ogni modello, coerente o incoerente, in ogni parola, per quanto falsa, in ogni oggetto ritenuto, vi è incontraddittorietà della forma, nonché unità con ogni altra determinazione. Ogni meros è sé stesso, presenza manifesta ma pure presenza immanifesta di ogni altro meros, poiché ogni meros è Axios. Totalità intrinseca assiologica, appunto, a fronte di una totalità estrinseca mereologica. Proprio perché il Tutto essendo differenziato non può apparire tutto insieme, per questo appare quale unità in infinite apparizioni. In ogni apparizione appare solo quell’apparizione, ma è presente, latente, ogni altra apparizione.
In parole più semplici il Tutto è insieme che non appare tutto insieme, in cui ogni insieme appartiene a ogni altro insieme. Ogni cosa nel Tutto è dicibile insieme (anima), composizione di quiddità, e di ogni cosa ogni altra cosa è dicibile suo attributo (posizione), proprio in virtù della relazione che unisce ogni posizione a ogni altra posizione. Perché tutto sia coerente è necessario che sia eccepita la separazione, ciò che costituirebbe un insieme vuoto.
L’infinito in atto così non è indicibile ed è più comprensibile di quello in potenza, che tende a infinito, ma soprattutto richiede d’intendere realmente e non nominalmente la categoria di modalità tale che si susseguano gli uni, senza che sappiamo cosa siano.
Ma appunto dire l’infinito non è farne esperienza, e, per quanto ogni apparizione sia finita (determinata) ma infinita (senza confini, sempre sfumati), “passare dalle parole ai fatti (o ad altri stati di coscienza)” e lasciare che la propria anima si faccia teatro della spirale dicibile infinito, non è cosa che avvenga spesso né raccomandabile.
In quel tunnel di rappresentazioni si entra quando, costatata la loro impossibilità di imbrigliare significati, si abbandonano le parole e anche le interpretazioni per tuffarsi nella Realtà. Allontanandosi così dalla propria “umanità”.
Nulla lo vieta e neanche, tuttavia, è necessario. Necessità dà mostra di sé anche nelle esperienze più ordinarie, basta accettarla.
Con ciò vengo al punto riguardante la dignità ontologica di ogni aspetto in Verità. Questa “dignità” consiste dell’eguale sistenza di ogni aspetto che permane immutabile. Circa poi gli essenti che pretendono di portare contenuti, come le opinioni che, interpretando, vorrebbero inserire la negazione nell’Essere, ebbene anch’essi permangono immutabili. Quali significanti i cui significati, però, non sono. La loro volontà di escludere dei positivi viene “punita” con l’esclusione di ciò che vorrebbero intendere, ma non con la loro esclusione, poiché, quali positivi, sono.
Ciò, si badi, vale anche al di fuori della prospettiva di Verità – che io in questa parte del discorso sto assumendo per difenderla – poiché la negazione nell’esperienza appare solo significata da un positivo. Si può solo scommettere su un interpretazione che valida la negazione, mai con certezza.
Ed è in virtù di tale negazione che tu introduci l’Alterità e la discontinuità, che non figurano nell’esperienza. Vengono entrambe da una tesi metafisica, per esempio la tua, quindi in linea di principio non è un problema se vengono escluse a priori da un’altra tesi.
Così se poi tratti A e Z come radicalmente distinti e separati giocoforza introduci lo “sfondo d’indiscrezione”, che nell’esperienza non può apparire. Indiscrezione e discontinuità non sono forme e, mentre continuità indica l’unità delle forme che appaiono, discontinuità e indiscrezione ne negano perlomeno alcune.
Poi dici:
L’ontologia parmendista sarebbe una epistemologia riduzionista, ridotta cioè al finito concepibile: nessuno spazio per l’inconcepibile.
E mi chiedo e ti chiedo: dunque si può introdurre arbitrariamente l’inconcepibile, quale indiscrezione e discontinuità? O addirittura si deve? Per salvare movimento e alterità che non appaiono e sono negazione di ciò che appare?
La vita di movimento esige la morte delle forme, sia di qualcosa che di qualcos’altro.
E a tal proposito ancora affermi:
L’infinità è l’assetto più proprio del Reale in quanto sempre eccepisce il concepito.
Con questa “idea” di infinito, cancelli – come scrivi – tutti i concepiti, che verranno eccepiti. È solo questione di tempo. Il “Reale” è ancora quel contenitore che non è contenuto nei suoi contenuti. Non appartiene a sé stesso, non è della stessa natura di ciò che ha sotto di sé. Tutto muta ma non Lui, che è la sola imposizione a tutto di mutare. E neanche lo sa! Ricordi? Perché è Uno, non ha scienza di sé perché altrimenti sarebbe doppio: 1) il Necessario imporre a tutto la contingenza; 2) il Sapere di essere il Necessario imporre a tutto la contingenza.
Questo sarebbe tutto sommato coerente: panta rei tranne che panta rei. Ma ovviamente tale legge sarebbe solo un nome, che sottende una totalità estrinseca di molteplici in caotico conflitto (magari molti bosoni di higgs impazziti).
Ma anche questo non ti piace e, preventivamente, chiarisci di non volerti appellare alla fede, seppur io nominando il nome Arata con il nomignolo (“il fideista”) che gli affibbio non mi riferivo al fideismo.
Non fare come Arata, il fideista, che s’ostinò a dire a Severino che anch’egli era un uomo. Ché dovresti dirlo poi, cos’è un uomo… trarlo fuori dal Concetto (o dall’apparizione) e tenerlo separato
Parole mie. In cui, tra le righe, ti chiedevo: dimmi cos’è un uomo! Dimmi come distingui essenzialmente A da Z. O dimmi anche chi sei tu! Se pensi la contingenza rimuoverai dalla descrizione di te stesso tutto ciò che ti sei guadagnato vivendo. Rimarrebbe solo ciò che eri senza la tua vita vissuta. E nemmeno quello perché anche la tua nascita è frutto della contingenza. Fuori di Verità sei Niente!
Ogni determinato compiuto che accade rimane equivalente al determinato, possibile, incompiuto.
Si fa leggera la vita di mortale. È appunto quella di un morto che cammina. Conosci questa vita?
A cosa credere poi? Per come abbiamo considerato la Verità, come presupposto, se coerente, può essere creduta, in mancanza della dimostrazione della necessità di scegliere quel presupposto quale imposto.
Ma quale che sia un’altra Verità di fede, quella è coerente sì da poter essere creduta? O si cerca, proprio perché manca l’enunciato che la descriva senza intoppi, piuttosto che la dimostrazione della necessità della scelta di quella Verità?
Che cerchi? La scelta? La necessità della scelta? La coerenza? La Verità?
Forse cerchi di mantenerti sulla strada che ti faccia errare più a lungo, in un viaggio senza meta. Non è poi come la Verità? Quella è un Eternità di viaggi.
@ILLUS. by MAGUDA FLAZZIDE, 2020