DIALOGO FRA LUI E FEDERICO

NIETZSCHE: Ora che la sofferenza deve sempre mettersi in mostra come il primo degli argomenti contro l’esistenza, come il suo peggior punto interrogativo, si farà bene a ricordarsi dei tempi in cui opposto era il nostro giudizio, poiché non si voleva fare a meno di suscitar dolore e si vedeva in ciò una magia di prim’ordine, una vera e propria esca di seduzione alla vita.
LUI: Federico, sei sempre il solito: sei così innamorato della vita da accettare tutto, di lei! Sai cosa ho sempre pensato, di te? che tutta la tua filosofia non sia nient’altro che una re-azione all’azione potente che la malattia ha avuto sul tuo fisico: a te è sempre mancata la salute, diciàmocela tutta, dài, e per questo hai fatto di tutta la tua filosofia un grande inno alla vita salutare, la vita dei forti, dei robusti: hai fatto diventare filosofia ciò che ti è sempre mancato, la salute. Ma non la vedi la sofferenza, in questo ospedale? E pensi che una volta le cose andassero meglio? Il mondo è sempre stato un ospedale pieno di pazienti che soffrono.
NIETZSCHE: Forse allora – sia detto a consolazione dei delicati – il dolore non faceva ancora così male come oggi; per lo meno potrà giungere a questa conclusione un medico il quale abbia curato negri (prendendo questi come rappresentanti dell’uomo preistorico –) in gravi casi di infiammazione interna, che portano alle soglie della disperazione anche l’europeo della miglior complessione organica – questo non succede nei negri.
LUI: Dài, Federico… Ma cosa ne fai, adesso, una questione di razza? Li hai visti i films di Rambo? Ti sarebbero piaciuti! Sai, lì avresti potuto vedere Sylvester Stallone nel tripudio della forza fisica e della salute, sprezzante del dolore… non è un negro, Stallone, ma comunque non ti avrebbe deluso: guàrdali, i suoi films! Ma, comunque, tu credi veramente che l’umanità, in tempi passati, tollerasse il dolore più di noi?
NIETZSCHE: La curva della tolleranza umana al dolore sembra scendere in realtà straordinariamente e quasi all’improvviso, non appena si abbia dietro di sé i primi diecimila o dieci milioni di individui di una civiltà superiore; e quanto a me non ho alcun dubbio che, a paragone di una notte di dolore di una sola isterica donnetta letterata, le sofferenza di tutti gli animali insieme, i quali sono stati fino a oggi interrogati col coltello ai fini di scientifiche risposte, non vanno semplicemente prese in considerazione.
LUI: Se lo dici tu… tendi a mettere in relazione la civiltà con la mollezza, con la debolezza. Hai passato la vita a escogitare filosofemi sofisticatissimi e al contempo anche a sognare di non ben precisate epoche in cui l’assenza del “pensiero debole” era sintomo di salute. Certe volte mi sembri sadico: sembra che tu voglia difendere a tutti i costi uno stato animale disumano in cui il giusto e il bene sono il diritto dei più forti di spadroneggiare sui più deboli. Pensi veramente che l’uomo forte sia quello che prova piacere nel godere delle disgrazie altrui, cioè dei più deboli di lui?
NIETZSCHE: Forse è persino lecito ammettere la possibilità che anche quel piacere della crudeltà non debba essere propriamente estinto: esso avrebbe solo bisogno di una certa sublimazione e assottigliamento, in relazione al fatto che oggi il dolore fa più male…
LUI: …sicuramente a me il dolore fa male. A te no? Tu, il 3 gennaio 1889, all’età di 45 anni, proprio qui a Torino, avesti la tua prima crisi di follia in pubblico: era lo stesso anno in cui nacque Hitler (sarebbe nato di lì a tre mesi, il 20 aprile 1889) e forse i vostri destini erano in qualche modo legati; tu sei impazzito lasciando che un altro portasse avanti il tuo pensiero in piena lucidità… la tua pazzia è stata raccolta da Hitler e tu sei finito in manicomio… la maledizione del numero 45 è caduta su di voi: tu sei nato 45 anni prima di Hitler, e lui è morto 45 anni dopo di te… Ehi, Federico, non mi rispondi più?
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