FILOSOFIA, NON FIDEISMO
Carissimo eddymanciox,
constato con piacere che la reazione alla mia risposta non ha dovuto attendere molto per ricevere attente ricognizioni (per leggere L’umano è tale solo se dimentica Dio clicca qui)! Accolgo il consiglio e aggiungo queste mie meditate riflessioni a questa disputa parmenidista…
Mi si fa notare:
Perché Verità dovrebbe errare? Cosa dovrebbe governare? Il governo si rende necessario solo quando vi è opposizione, senza di quella Verità è da sempre realizzata nella Sua forma completa (attuale, perfetta), la Sua “libertà” è indipendenza assoluta
Concordo pienamente. Verità non erra, né vagola in cerca di un ipotetico autore. Difatti mai ne ho affermato l’erranza! Verità è Una e Unica. Bensì, è l’uomo a vagare. E peregrina su quel sentiero che è la Verità stessa: ritenerla nostro cammino ci porta ancora più incontro alla Verità che permane libera nella sua indipendenza. Si deve da ciò dedurre che l’uomo non sia libero? Certo che no! Gli incroci e gli svicoli si moltiplicano; ci avviciniamo e ci allontaniamo; governiamo la nave tra i morosi procellosi. Verità non governa. È l’uomo a governare. Possiamo cercare la Verità solo perché in cammino nella Verità.
A riguardo, mi si dice:
Infatti, in tale prospettiva, lo siamo, tutto lo è. «Noi stessi siamo gli Attributi con cui descriviamo Dio» (Abd al-Karim al-Jili). Sappiamo la Verità, siamo la Verità. Il Sapere è informazione, è Essere. Essere = Sofia = Verità = Dio = Incontradditorio. Se così non fosse Dio differirebbe dalla Sua scienza, che Ne sarebbe un suo attributo. E dove sarebbe la Sua unità
Ma il fatto di sapere la Verità come può farci essere Verità? Dire che siamo gli Attributi di Dio, in realtà, non implica che noi siamo Dio. Certamente Dio è i suoi Attributi, ma possiamo affermare egualmente che i suoi Attributi siano Dio? Noi saremmo la Verità, dunque Dio, perché sappiamo di essere la Verità, dunque Dio: non è una petitio principii? L’estensione è un attributo della Sostanza-Dio. Bene; non per questo ciò che è esteso è Dio! Non si confondano i piani: la Verità è la Verità così come la strada è il nostro cammino. Ma il porfido del manto stradale non è la strada…
Un punto importante è questo:
Nel discorso dei parmenidei Verità è l’essere sé di ciò che appare, l’Unità del Tutto, l’Eternità del Mondo. In questo senso l’Essere (Incontradditorietà) è tutto intero in ogni punto di sé stesso (sentenza III dei XXIV). Eguale dignità ontologica per ogni suo aspetto
Si conferma quanto affermato sopra: l’Essere è intero e Tutto in ogni cosa, Identico a sé in ogni punto non essendo però ogni punto identico all’Essere. Sub specie aeternitatis ogni apparizione è apparizione di Essere senza essere Essere. Altrimenti si dovrebbe ammettere che apparizione sia Essere e soltanto Essere: donde allora l’interpretazione? Si deve allora ritenere semplice opinone ogni lettura interpretativa, ribellione antropologica ad un impero teologico? Come si può affermarse pari “dignità ontologica” ad ogni suo aspetto se una parte è considerata meramente doxa?
Il grosso problema delle teorie parmenidee risiede in questo: la difficoltà a pensare ontologicamente l’Alterità. Se l’Identità e il Differente sono identici, allora la tanto sbandierata parità di valore viene necessariamente meno. Sia A e Z. Entrambi li possiamo definire Essere in quanto apparizioni. Esseri tali per cui A=A e Z=Z. Ma tra A e Z, che rapporto c’è? Dire che sono punti all’interno del quale l’Essere è tutto l’Essere non ci leva dai guai, anzi. Diamo per scontato che A=A e Z=Z siano diversi tra loro; diametralmente opposti. Più oltre nella tua risposta dici che gli enti sono «tutti distinti (determinati) ma non separati tra loro nella continuità (unità) implicata dall’immutabilità (Verità, eternità)». Se davvero tutti gli enti fossero distinti e non separati allora A e Z sarebbero legati almeno dalla relazione di non-eguaglianza rendendoli qualità discrete sullo sfondo d’indiscrezione. Insomma, una continuità discontinua.
Il passaggio è nevralgico e concordo con te: indiscrezione e discrezione, id est continuità e discontinuità, sono se stesse nel loro essere se stesse e diverse nei loro rispettivi essere-sé-stessi. (A=A)≠Z e (Z=Z)≠A per semplificare. E questo contemporaneamente. Però occhio: tutto ciò si basa su di una logica della contraddizione, di certo non parmenidista!
Con gran onestà ammetti:
A dir il vero qualche difficoltà sorge. E già ti dissi quale. Forse entrando in quel discorso potresti solleticare i parmenidei (e anche invischiarti in una spirale vertiginosa)
Mi ricordo; parli dell’Infinito, dell’Infinito in atto che non riesci a pensarlo, perché infinito. Per il momento, più che l’infinito mi preoccuperei degli infiniti (o eterni) che fai essere A e Z. Il doppio rischio delle tesi parmenidiste è l’irriducibile dualismo 1) tra Essere e non-Essere (Identico/Differente) la cui scomparsa infesta Essere) e 2) tra l’Uno e i molti i quali sono a loro volta, in quanto apparizioni, infiniti (eterni).
Con il passaggio successivo esporrò il secondo problema, complementare, circa l’infinito.
Coerentemente dici:
Il punto è che non si cerca di andare da qualche parte, ma di fornire un modello del tutto. Considerando la proposta parmenidea, ossequiosa dell’idea di Verità, ossia di conformità perenne (eternità), non vi è arrivo né partenza
Se il punto è non muoversi dal punto di partenza è proprio perché si punta ad una costruzione di una teoria del tutto, un “centro di gravità permanente” non cercato, né trovato. Unico scricchiolio: la costruzione di un modello impone una costrizione al tutto, tutto che deve essere fatto combaciare al modello. E questo è un argomento in più a favore della tesi epistemologica del pensiero parmenideo anziché ontologica. Per questo l’infinito potrebbe susucitare imbarazzi. Essendo impensabile ne è praticamente impossibile la modellazione. L’ontologia parmendista sarebbe una epistemologia riduzionista, ridotta cioè al finito concepibile: nessuno spazio per l’inconcepibile.
Da qui allora l’infinità: davvero non si può pensare perché è in-finito, dentro il finito. L’infinità è l’assetto più proprio del Reale in quanto sempre eccepisce il concepito.
Allora non possiamo fare altro che rivolgerci a quell’istanza superiore che è la fede la quale afferma credo quia absurdum? Così mi si dice:
Non fare come Arata, il fideista, che s’ostinò a dire a Severino che anch’egli era un uomo. Ché dovresti dirlo poi, cos’è un uomo… trarlo fuori dal Concetto (o dall’apparizione) e tenerlo separato
Nessun richiamo alla fede (meglio, al fideismo). Nessuno empito trascendente presunto avvicinarci all’Uno-Essere-Dio. Abbandonare la ragione per un fideismo spiccio non può essere la soluzione. Tuttavia, è l’Essere stesso ad essere plurivoco, equivoco e in movimento. Eppure concordo con te: A=A e Z=Z. Ma A≠Z!. Ebbene, è proprio quel ≠ ad essere oggetto della regione che deve sforzarsi di renderne ragione non cedendo al nichilismo troppo-vuoto fideistico o a quello troppo-pieno del riduzionismo dell’Essere al Pensato.
Devo ammettere che anche il mio è un modello, e come tale risente del canone riduzionista. Il mio grosso problema lo individuo nel fatto che una volta fatta piazza pulita dell’Uno riduzionista, resta una stampede furibonda di enti in cerca di una logica che possa darne ragione. Se il tuo problema è l’immobilismo (ovvero semplicemente capire il perché le cose debbano essere così, giustificandole matematicamente), il mio è la totale assenza di un perno di rotazione, che rende il tutto, allo stato, afflitto da un incedere rizomatico.
Forse davvero abbiamo bisogno, entrambi, di queste sagge parole:
@ILLUS. by, FRANCENSTEIN, 2020
Risposta
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https://arenaphilosophika.it/verita-non-serve-parte-i/