IL PRAGMATISMO FILOSOFICO DI RICHARD RORTY

Donald Davidson introduce in filosofia il concetto di metafora[1]. Quest’ultima, come fa presente Aldo Giorgio Gargani, va intesa
diversamente da quanto è stato ritenuto dalla Retorica di Aristotele fino ai giorni nostri, non è l’espressione figurata di un contenuto che sarebbe afferrabile nei termini di un linguaggio quotidiano, perché essa al contrario introduce […] un nuovo modulo espressivo […][2].
Molti fra i contributi di Richard Rorty si inscrivono nella tradizione filosofica come metafore vive (live metaphors), come «usi insoliti di rumori e di segni»[3] volti a elaborare un nuovo vocabolario e una nuova teoria. Egli, dunque, rompe con il passato. Ritiene che il compito della filosofia non sia “afferrare l’Essere per la collottola” o “acciuffare l’uomo per i capelli”[4]. Propone, bensì, una filosofia antirappresentazionalista e antirealista.
Ciò che l’antirappresentazionalista nega è che, dal punto di vista esplicativo, serva a qualcosa operare una scelta meticolosa tra i contenuti delle nostre menti o del nostro linguaggio e affermare successivamente che questa o quell’entità “corrisponde a” o “rappresenta” l’ambiente in un modo in cui qualche altra entità non è in grado di fare[5].
L’antirealismo, invece, essendo un termine ambiguo[6], assume un senso specifico se letto attraverso la lente dell’antirappresentazionalismo. Rorty procede a descriverlo come «il tentativo di evitare che la discussione sul realismo negando che le nozioni di “rappresentazione” o di “realtà effettiva” [fact of the matter] svolgano un ruolo di qualche utilità in filosofia»[7].
Alla luce di ciò, non solo la verità come corrispondenza si rivela una metafora logora[8], ma si dissolve l’opposizione epistemologica fra testi e blocchi di elementi, fra critica letteraria e chimica, fra politica e fisica, eccetera. Ogni oggetto appare ugualmente morbido: non si deve più parlare di fatti scientifici, di oggetti solidi. Né la scienza, né la filosofia, sono in grado di cogliere alcun “in sé”. La narrazione scientifica diventa una fra le tante possibili: il mondo non parla[9], soltanto l’uomo lo fa parlare, non c’è un fatto dietro la descrizione del fatto stesso a rendere vera quest’ultima.
Ciononostante, né l’accusa di idealismo, né quella di relativismo, rappresentano una minaccia. Infatti, se da un lato la concretezza e la causalità di un oggetto non vengono messe in dubbio, dall’altro la nozione di oggettività permane in Rorty, assumendo un nuovo significato. Essa consiste «nella capacità di raggiungere un accordo sul problema di stabilire se un particolare insieme di desiderata sia stato o meno soddisfatto»[10]. In altre parole, desiderare l’oggettività significa desiderare «di pervenire al più alto grado possibile di accordo, di estendere quanto più è possibile il riferimento del pronome “noi”»[11]. La verità si delinea, dunque, non tanto come qualcosa di transculturale o essenziale, bensì, seguendo William James, come ciò che ci[12] è utile credere (e in futuro potrebbe non esserlo più, a causa di nuovi bisogni, vocabolari, teorie). L’aggettivo “vero” non è nulla più che un complimento rivolto a ciò che consideriamo conoscenza, ossia ciò che reputiamo così ben giustificato da non necessitare ulteriori approfondimenti.
Ragionare così significa ridurre l’oggettività alla solidarietà, significa essere pragmatisti. Infatti, la locuzione “la filosofia di Rorty”, può essere a questo punto ben riassunta in una sola parola: pragmatismo. Oltre a essere antirappresentazionalista, il soggetto pragmatista ideale persegue la solidarietà, desidera fornire il proprio contributo all’interno di una comunità di riferimento. In secondo luogo, è etnocentrico, ossia è consapevole della tradizione e della cultura della propria società e suddivide «la razza umana nelle persone a cui si devono giustificare le proprie credenze e tutti gli altri»[13]. Infine, ritiene che la società non si fondi sulla natura intrinseca dell’uomo e sui diritti universali che gli spettano, ma la immagina, piuttosto, come un insieme di individui volti a realizzare obiettivi comuni[14]. All’interno di questo contesto, egli si mette in gioco per modificare l’ambiente in cui vive. Reagisce agli effetti causali della realtà esterna attraverso una risposta linguistica (che può assumere la forma di una metafora viva), attraverso una ri-descrizione di sé e dei dintorni, che riposa sulle proprie idee e sui propri desideri.
Il soggetto che Rorty delinea si conferma essere l’ennesimo contrasto con la tradizione filosofica occidentale. All’individuo dotato di a priori o di facoltà trascendentali, viene preferito quello umano. È un individuo non idealizzato, ma quotidiano, che percepisce il contatto con l’attrito della realtà, incapace di estrarre ciò di cui parla dalla circostanza in cui è immerso per svelarlo nella sua “vera essenza”. Le credenze e i desideri di cui è fatto non ostacolano la scoperta del significato, bensì sono le prime a conferirlo. Il comportamento linguistico, in ultima istanza, si configura come uso di uno strumento e il «linguaggio come mezzo per assumere il controllo di forze causali e subordinarle alle nostre volontà […]»[15].
[1] Davidson parla di metafora viva e metafora morta. La prima non ha un ruolo all’interno di un determinato gioco linguistico, dunque, non ha ancora un significato, è una frattura con la tradizione. Col tempo (e con un po’ di fortuna e di benevolenza altrui) essa si instaura nell’uso, finché non diviene una metafora morta, ossia una figura linguistica il cui significato è ormai consolidato.
[2] R. Rorty, Scritti filosofici – Volume I, a cura di A.G. Gargani, Laterza, Bari 1994, p. XIX.
[3] R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà, trad. it. di G. Boringhieri, Laterza, Bari 1989, p. 26.
[4] “Afferrare l’Essere per la collottola” e “acciuffare l’uomo per i capelli” sono espressioni di Gargani, entrambe presenti nell’introduzione al primo volume degli Scritti filosofici. Esse si collocano in un quadro più ampio, ossia all’interno di quel pensiero che vuole riportare il filosofo a terra, giù da quella scala che Ludwig Wittgenstein nomina nel Tractatus, più precisamente nella proposizione 6.54. A tal proposito, si faccia riferimento, inoltre, al saggio di Gargani intitolato Il coraggio di essere, che fa da introduzione ai Diari segreti (di Wittgenstein) dell’edizione economica Laterza (prima edizione 1999).
[5] R. Rorty, Scritti filosofici – Volume I, cit., p. 8.
[6] Come lo stesso Rorty specifica.
[7] R. Rorty, Scritti filosofici – Volume I, cit., p. 5.
[8] Ivi, p. 109.
[9] Se il mondo non parla, allora non può esprimere alcuna “natura delle cose”: l’antirappresentazionalista non crede che «dietro l’enunciato vero S, vi sia una realtà non linguistica a forma di enunciato chiamata “il fatto che S” […] a rendere vero S»[9] (R. Rorty, Scritti filosofici – Volume I, cit., p. 7).
[10] R. Rorty, Scritti filosofici – Volume I, cit., p. 121.
[11] Ivi, p. 31.
[12] Il corsivo è dello stesso Rorty e sta a ribadire il “noi”.
[13] Ivi, p. 40.
[14] Obiettivi raggiungibili nella pratica, ad esempio una migliore giustizia o un migliore sistema di welfare.
[15] R. Rorty, Scritti filosofici – Volume I, cit., pp. 111 – 112.
BIBLIOGRAFIA
Rorty R., Contingency, irony and solidarity, Cambridge University Press, Cambridge 1989; trad. it. di G. Boringhieri, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà, Laterza, Bari 1989.
Rorty R., Objectivity, Relativism and Truth. Philosophical Papers – Vol. 1, Cambridge University Press, Cambridge 1991; trad. it. a cura di A.G. Gargani, Scritti filosofici – Volume I, Laterza, Bari 1994.