KARL JASPERS E IL PENSIERO DELL’ORIGINE
L’origine non può essere spiegata come cosa-tra-le-altre; non si può conoscere come se fosse un oggetto di conoscenza disponibile ad una riflessione empirica o scientifica; l’origine resta nella sua essenza sempre inconoscibile. Tuttavia, è inevitabile porsi domande in riferimento al principio (del mondo, della conoscenza del mondo, del mondo biologico e dell’uomo, per esempio). L’interrogare, che poi è un interrogarsi, esprime già la possibilità per chi (si) interroga di non rimanere chiusi, bloccati e fagocitati nella realtà, nella situazione in cui ci troviamo. Ma il questionare da solo non basta minimamente; ad esso è necessario associare la presa di coscienza dell’irraggiungibilità dell’origine e, ancor più approfonditamente, la presa di coscienza di questa presa di coscienza e del suo necessario e inevitabile fallimento: il questionare sull’origine non ci permette di impugnarne la realtà effettiva, ma ci conduce ad approfondirci in essa, a partire dalla nostra realtà storica.
Ogni possibile soluzione si presenta, appunto, come una possibile soluzione, come ipotesi, più o meno verificata, più o meno comprovata, ma pur sempre ipotesi. Le teorie sulla formazione dell’universo, sulla nascita della vita nel nostro pianeta; le teorie sull’evoluzione dell’uomo dalla scimmia e il suo sviluppo nelle ere della preistoria; le teorie sulla formazione delle prime civiltà (e quindi il passaggio dalla preistoria alla storia) non riescono a fornire risposte ultimative. Certamente sono dei passi in avanti notevoli per una migliore autocomprensione dell’uomo, ma, come che sia, non riescono a cogliere il punto archimedico, non riescono a individuare la chiave di volta: resterà sempre presente un anello mancante. E questo perché «quanto più arriviamo a conoscere, tanto più grande diventa per la nostra coscienza l’enigma del tutto» (K. Jaspers, Origine e senso della storia, p. 175).
L’origine, pertanto, sarebbe un enigma, un mistero, che ci invita a svelarlo, ma che ci costringe, altresì, a svelarlo ogni volta, sempre nuovamente. Il termine tedesco Ursprung, in effetti, contiene già tutto. Ur-sprung, letteralmente “salto originario”, “salto primo”, include in sé essere, nulla, divenire, spazio e tempo:
- essere: in quanto salto, deve avere una base da cui saltare; la base è l’essere che è prima di ogni inizio e dopo ogni inizio;
- nulla: in quanto il salto è sempre attraverso un abisso. Sia che lo si consideri mitologicamente come caduta dell’uomo (peccato originale), sia che lo si interpreti come processo evolutivo, il salto è sempre salto attraverso il nulla (l’anello mancante);
- divenire: in quanto il salto è attività, movimento, contrapposizione, lotta ed evoluzione. È presenza sfuggente perché sembra immobile, ma è un divenire già divenuto (io non colgo il divenire in-divenire, lo colgo già divenuto: non si può pensare l’uomo-diventare-uomo, ma l’uomo già divenuto uomo);
- spazio: in quanto il salto si attua da una sponda all’altra, da un pre-uomo all’uomo;
- tempo: in quanto il salto premette la distinzione di un prima e di un poi. È l’Ur– del salto che ha stabilito il post della realtà effettiva che ci tocca indagare.
Data questa pienezza dell’origine, ogni nostra possibile conoscenza determinata non può far altro che naufragare in un nulla di fatto; neanche l’uomo più sapiente, neanche colui che riuscisse a conoscere, in vita, tutte le scienze possibili, neanche colui che fosse in grado di sapere tutto lo scibile umano operando nell’ottica di un’unità delle scienze da lui raggiunta, potrebbe portare luce definitiva sull’inestinguibile mistero dell’origine perché
l’unità delle scienze non consiste nell’unità della realtà tramite loro conosciuta. La loro somma non ci dà la realtà nella sua interezza. Esse non costituiscono una gerarchia basata su una crescente approssimazione alla realtà. Non formano un sistema unitario dominante tutto il reale (ivi, p. 116).
Che fare, allora, di fronte all’inesauribile enigma? Rimanere attoniti e inermi? Trovare pervicacemente soluzioni e bearsi, privi di coscienza, dei risultati raggiunti assolutizzandoli a verità eterne? Resistere di fronte all’inevitabile naufragio, naufragando? L’atteggiamento suggerito da Jaspers è quello genuinamente filosofico: la meraviglia, lo stupore di fronte alla realtà, per vedere, in essa, ciò che la trascende e la rende possibile.
Lo stupore di fronte al mistero è di per sé un fecondo atto conoscitivo, in quanto punto di partenza per l’ulteriore ricerca, e forse addirittura fine di tutto il nostro conoscere, perché implica una penetrazione attraverso la massima quantità possibile di sapere fino alla nescienza autentica, invece di lasciar scomparire l’essere assolutizzandolo in oggetto di conoscenza chiuso in sé (ivi, p. 39).
Questo atteggiamento filosofico fondamentale di fronte alla realtà, nella realtà, esprime, per così dire, la ragione di più per la quale l’uomo non può conoscere l’origine come un mero oggetto: l’essere-in-situazione. L’uomo si trova sempre in una situazione determinata, in un contesto (storico-culturale, economico, sociale, famigliare, religioso, per esempio) da cui partire e che costituisce l’ambiente della sua formazione. Si è sempre inseriti in una situazione, in una cornice che delimita il nostro campo d’azione; in una situazione che ci sovrasta perché noi siamo inseriti, o meglio, ci troviamo inseriti in essa: per questo è irriducibile a tutto quanto si possa di lei conoscere. Essere-in-situazione è la caratteristica propria di ogni essere vivente: è pensiero ecologico.
Da quanto detto in precedenza, si può notare una cosa molto interessante: se ogni nostro inizio, se ogni nostra attività, se la nostra vita stessa non può far altro che trovarsi-in-una-situazione, a conti fatti, nessun inizio è un vero inizio, perché ogni cominciamento si realizza su di una base già iniziata! Pensiamo alla nascita di una nuova creatura. L’inizio della sua vita si inserisce all’interno di una storia famigliare già incominciata, già passata e intrecciata con altre storie che costituiranno l’atmosfera in cui si inserirà il nascituro. E, oltre a ciò, bisogna tenere a mente un altro particolare degno di nota: nessuno si ricorda della propria nascita! Certo, posso, da adulto, riguardarmi quand’ero in fasce, per foto, ma nessuno si ricorderà mai del momento in cui si è venuti al mondo.
L’origine resta sempre velata e oscurata da un alone di mistero, perché ogni origine raggiunta getta luce sulla sua propria origine, spostando, così, la ricerca sempre un po’ più in là. Sintetizza con massima precisione Pareyson: «mi accorgo che la mia situazione non è l’inizio dell’essere, ma soltanto l’inizio della mia ricerca, del mio filosofare» (Pareyson, Karl Jaspers, pp. 75-76). Ovverosia, solamente diventando conscio del mio essere-in-situazione come Zwischensein, come esser-tra, posso rendermi conto che la posizione del filosofare, del mio filosofare, in quanto coscienza dell’essere, è sempre un esser-di-traverso, un essere mai all’inizio, né alla fine, un essere, per così dire, sempre in ritardo, perché iniziato a cose già iniziate: «per Jaspers l’inizio della filosofia è la mia situazione nella sua indeducibilità: venendo negato il puro inizio, il mio cominciare accade . . . a cose già iniziate» (Schiff, Tra unità e lacerazione, p. 93.
E cosa comporta questa considerazione?
- L’origine non può essere confusa con il semplice inizio; l’origine è più principio e fondamento che inizio. L’inizio è l’impulso causale, la molla che fa scattare il meccanismo, mentre l’origine è il luogo, la fonte sorgiva. È trascendentale.
- Noi, volenti o nolenti, consciamente oppure no, siamo sempre nel luogo dell’origine, eppure, in quanto esistenza, sempre fuori, in una dimensione mediana. Nel nostro essere-fuori, siamo sempre dentro l’origine in quanto l’origine è sempre in noi (Spinoza).
L’origine è il nostro fondamento e di conseguenza non possiamo mai raggiungerla dall’esterno, non possiamo porci dall’alto, con una visuale distaccata. È proprio l’impossibilità nel porre fine alla ricerca che ci deve far destare a noi stessi; l’origine si può cogliere solo nell’incontro. A questo proposito, si può notare una profonda influenza del pensiero di uno dei più importanti filosofi del XVII secolo: Baruch Spinoza. L’esergo nel frontespizio del Tractatus theologico-politicus ci fornisce preziose indicazioni: «per hoc cognoscimus quod in Deo manemus, et Deus manet in nobis, quod de Spiritu suo dedit nobis» (I lettera di Giovanni, IV, 13). Dio è il principio di tutto e le cose stesse sono (in) Dio. Credere in Dio, per Spinoza, significa essere in Dio e Dio in noi; ma l’essere-in-noi di Dio implica l’essere-noi-in-Dio; e in questo essere-in, noi possiamo riconoscere l’assoluta lontananza che ci separa da Dio. In quanto nell’origine, non possiamo dire nulla di definitivo, perché, a ben guardare, non siamo noi che la afferriamo, ma è ella che ci stringe a sé. Il pensiero dell’origine si salda così con quello della Verità:
[la] conoscenza della verità, quando la verità non si ritiri oscurata da un tradimento che la rinneghi e la neghi, è così fontale, radicale, originaria, che s’ha da dire che non si può possedere la verità se non nella forma d’esserne posseduti (Pareyson, Ontologia della libertà).
@ILLUS. by MAGUDA FLAZZZIDE, 2023