IL MEDICO E IL NICHILISTA
Tempo fa andai da un medico e, tra una chiacchiera e l’altra, ci trovammo a parlare di celibato e matrimonio.
Lui mi disse che il celibato è contronaturale e nessun uomo nasce per stare solo, testualmente: “siamo stati fatti per riprodurci”. Sì, avete letto bene, “siamo stati fatti per”. Si crede ancora nell’esistenza di una teleologia, di un imperativo cosmico e morale; siamo ancora, come direbbe Comte, allo stadio metafisico.
Gli feci osservare che il celibato è una scelta e come tale andrebbe rispettata. Mi rende parecchio perplesso che un uomo di scienza, che studia le strutture naturali, possa credere in una morale oggettiva. La natura è a-morale, poiché sprovvista di fini intrinseci, e la morale altro non è che una sovrastruttura, come il linguaggio, le istituzioni e tutto ciò che esiste subordinatamente e posteriormente alla comparsa dell’uomo sulla Terra.
Dopodiché la discussione virò sulla libido e disse che gli uomini aventi scarsa libido sono da ritenersi “malati”; a quel punto decisi di troncare la conversazione: era chiaro che l’uomo di scienza non fosse neanche aggiornato sulle condizioni del mondo animale, dato che diversi studi recenti riferiscono addirittura dell’esistenza di alcuni esemplari asessuali, quali roditori, topi, montoni e koala, che sono mammiferi come noi. Insomma, la società crede ancora in un ‘dovere’, malgrado questo, come insegna Nietzsche, sia morto con Dio.
Intorno a questo dovere si raccolgono le più disparate opinioni, ma pur certo è che senza di esso non esisteremmo. Tuttavia, mi domando: che cos’è questo ‘dovere’? ‘Devo’ veramente qualcosa? Forse indagare su di esso è sconsigliabile; allora mi servo di una ulteriore domanda: qual è la sua funzione? Il concetto di ‘funzione’ è correttamente spiegato da Malinowski: funzione è tutto ciò che garantisce la sopravvivenza umana. Ebbene, il dovere ricopre un ruolo centrale in tal senso. Opportuno sarebbe dire che ‘dovere’ è tutto ciò che è funzionale e concorre alla conservazione della specie. Una natura di celibi e asessuali sarebbe disfunzionale: saremmo tutti morti se non ci riproducessimo.
Eppure questa spiegazione mi lascia più insoddisfatto di prima, giacché ne potrei inferire che la riproduzione non è un télos morale ma solamente un bisogno che varia a seconda delle esigenze personali e collettive (in Italia, ad esempio, è stimato che vi siano circa 2 milioni di celibi). Ora, tralasciando le possibili cause e concause del fenomeno, ne possiamo dedurre che, anch’esso, è realtà, dunque natura. Il celibato è tanto naturale quanto il matrimonio o, più genericamente, l’unione. Ma allora perché il medico rispose in quella maniera? I motivi sono tanti e prevalentemente di ordine culturale. Il concetto che meglio li riassume e definisce è quello della funzionalità poc’anzi citato. Il celibe (così come il folle, l’assassino) non è ‘funzionale’ alla società in cui vive, vale a dire che non è utile al suo progresso o alla sua conservazione e la sua scelta mal si adatta alle esigenze comuni (che peraltro possono variare da luogo a luogo).
Ma se la morale è mera funzionalità, o utilità, che senso ha parlare di ‘dovere’? Al limite si può parlare di ‘convenable‘. È la convenienza, non la morale, che ci spinge ad accettare norme, abitudini, valori e criteri prestabiliti. L’uomo si riproduce perché gli conviene, non perché sia ”stato fatto per” (finalità teleologica). Tutt’al più, egli ‘è tenuto’ a farlo. Ma non mi contento: perché saremmo ‘tenuti a’? Anche l’essere tenuti è una sovrastruttura: io non sono ‘tenuto’, dal momento che non esiste alcun dovere oggettivo. Non c’è nulla che io ‘debba’ fare, sicché non sono ‘tenuto’. A pensarlo era anche Stirner, il quale scriveva a caratteri chiari e indelebili che “il compito dell’umanità non è il mio compito”. Ogni dovere è una sovrastruttura metafisica fondata sulla sopravvalutazione e ipostatizzazione di certi principi che non esistono se non nei pensieri dell’individuo.
Se ciascuno di noi nasce e muore senza uno scopo oggettivo e non è nemmeno ‘tenuto’, come abbiamo visto, a svolgere i compiti che gli sono aprioristicamente assegnati, che cos’altro rimane? Il ‘volerli’ svolgere. Non nella terra dei doveri si radicano le umane azioni ma in quella dei voleri. La volontà ha surrogato il dovere. D’altronde, come diceva De Vauvenargues in tempi non sospetti: “Basta forse avere la vista buona per camminare? Non occorre aver anche i piedi e la volontà con la capacità di muoverli?”. Ma la volontà è pericolosa: di tutti gli ospiti lei è la più inquietante, losca, inaffidabile. Essa è ancora troppo soggettiva e mutevole perché possa costituire efficacemente un criterio universale; basta la volontà di un singolo uomo a disintegrare ogni velleitario progetto di salvezza. Abbattere il nichilismo è, semmai, rimuovere la volontà dall’individuo, non prima di avergli sottratto quel dispositivo che solo la rende imprevedibile, insubordinata e insofferente a ogni dogma: la ragione. D’altronde, come dice Galimberti: “la ragione non può più mediare i rapporti umani”. Se questo è vero, velleitario è ogni tentativo di salvezza: se viene meno la ragione, resta solo l’inganno, e se all’inganno è dato il compito di amministrare le nostre vite, vana è ogni nostra conquista, vana ogni speranza di libertà e di autonomia.
Quanto ho scritto finora è ben lungi dall’essere anche solo vagamente simile a una proposta. Quello che ho imparato è: se la ragione vuol costruire qualcosa, deve necessariamente, anche solo per un istante, cessare di essere se stessa. Una ragione che fluisca anche laddove abbia compreso la vanità di ogni possibile sforzo edificatorio non è certamente funzionale alla struttura. Se dovessimo usare la ragione, che richiede verifiche, prove e controprove non potremmo che diventare come l’acqua di un placido stagno: statici e rassegnati. Non tenderemmo più a niente. Se la nostra ragione avesse colto anzitempo l’estrema vanità del tutto, nulla di ciò che abbiamo edificato nei secoli, dai palazzi agli imperi alle industrie alle moderne tecnologie, sarebbe mai stato posto in essere. E se, ancora, usassimo la ragione, dovremmo rivalutare e cancellare qualsiasi formula, schema, definizione, ordine, misura, principio sia stato architettato dai padri del pensiero. La ragione giudicherebbe arbitrario qualsiasi suo prodotto e dissolverebbe l’oggetto della sua ricerca, giudicandolo inarrivabile. Alla completa dissoluzione dell’oggetto seguirebbe la totale discrezionalità del soggetto, al quale verrebbero rimessi tutti i giudizi di valore. Insomma, la più grande arma di distruzione di massa non è la bomba atomica, ma il pensiero razionale, la comprensione speculativa.
La ragione è pericolosamente disfunzionale e diventa funzionale solo quando rinuncia a sé stessa e al proprio flusso. Ecco spiegata la posizione del medico; egli, d’altronde, è funzionalista per antonomasia, essendo chiamato a prescrivere delle cure. Ma sono convinto che anche lui, così come chiunque non abbia mai smesso di far fluire i propri pensieri nel verso giusto, sappia di essere sceso a compromessi con le proprie capacità critico-analitiche. Per citare Woody Allen: “Se guardi la vita in modo troppo onesto, la vita diventa insopportabile”. Ecco essenzialmente come stanno le cose.
L’immagine in evidenza è un rielaborazione di un frame del film “Patrick”, di R. Franklin, 1978