ROSENKRANZ E L’ESTETICA DEL BRUTTO

Un’estetica del brutto? E perché no?
Così esordisce Karl Rosenkranz nel suo Estetica del Brutto. Libro peculiare, soprattutto perché, pur inserendosi in una tradizione abbastanza consolidata (da alcuni accenni nel Laocoonte di Lessing del 1766 e in alcune parti dell’Estetica di Hegel, per esempio), tratta l’argomento con originalità specialmente nel modo di concepirlo e di orientarne la riflessione.
Il brutto assurgerebbe a protagonista della riflessione artistica ottenendo così la sua ‘cittadinanza estetica’ nell’arte (Franzini), grazie al riconoscimento di un valore non solamente negativo, come semplice opposizione del e al bello, né esclusivamente una funzione meramente euristica (il bello sarebbe rivalutato proprio perché relato al brutto, come se il già-bello diventasse ancor più bello perché posto a fianco del brutto). Otterrebbe una dimensione portante per il bello, come sua negazione certamente, che viene, a sua volta ricompresa dialetticamente in un approfondimento del bello in sé, in un ritorno del bello al bello, confermato in se stesso e per se stesso dal suo (auto)alienato contraddittorio. Bello e brutto in reciproca relazione dialettica quindi: come il brutto non ha esistenza di per sé, ma la riceve dal bello, così ques’ultimo, inteso come unità e come armonia non può fare a meno del brutto come suo intimo momento.
La proposta rosenkranziana è notevole perché ha saputo dare natura sistemica alla questione ricomponendo in unità dinamica le reciproche antitesi. Il bello viene identificato con la forma pura, perfetta, l’armonia, la rappresentazione vivente, effettuale del vero, del bene; il brutto, invece, incarna il diametralmente opposto: l’impurità, l’imperfezione, la disarmonia, la rappresentazione effettuale del morto, del falso, del male; comprensibile una sua sistematica eliminazione dall’orizzonte artistico. Tuttavia, a Rosenkranz, vicino alla scuola hegeliana, curatore della biografia di Hegel, non possono che apparire sospette la definizioni così monolitiche, dogmatiche di bello e brutto. L’unità di conseguenza non può presentarsi esclusivamente in sé; essa deve necessariamente ammettere al suo interno una contraddizione che è autocontraddizione: la vera identità è identità dinamica, identità che lotta con se stessa, che necessita del suo opposto per potersi ricomprendere. Rosenkranz allora, può sottolineare questo ‘lato impuro’ della dialettica hegeliana per innestare la sua riflessione sul brutto.
Il brutto sarebbe l’impurità della e nella dialettica; la scissione interna del concetto che, autoestraniandosi, e proprio in quanto autoestraniantesi, si mescola con il suo opposto, si ‘sporca le mani’ per poi ritornare a sé, si aliena diventando la propria autocontraddizione che ne spezza la forma, la simmetria, la beltà. Questa forza diastematica del brutto è della dialettica in quanto essa si struttura proprio come movimento, come logica inclusiva delle astratte contraddizioni intellettuali e nella dialettica perché, essendo la forma logico-metafisica della realtà, essa è, in termini kantiani, la condizione di possibilità del brutto stesso, che è, a sua volta, paradossalmente, la condizione di possibilità della sua condizione di possibilità. All’interno della dialettica hegeliana, in effetti, l’idea, dal suo stato di totale perfezione e purezza (che è però astrazione intellettuale), decade dal suo status ‘in sé’ per materializzarsi nel ‘fuori di sé’ (basti pensare alle tre macrosezioni dell’Enciclopedia delle Scienze filosofiche di Hegel: Scienza della logica – Filosofia della Natura – Filosofia dello Spirito): l’dea diventa essa stessa la sua autoalienazione, si trova nella materialità svilente, nell’impurità, nella diastematicità, in poche parole, diventa brutta.
Ben più stimolante, per Rosenkranz, è individuare non tanto nello scivolamento in quanto tale il brutto, quanto più nell’inerenza stessa di questa necessità: il fatto che la purezza in sé non possa essere sufficiente e che debba necessariamente ammettere un proprio rovesciamento, rende manifesta la caducità della purezza e il bisogno da parte di quest’ultima dell’impurità. La purezza, in quanto purezza astratta, cioè come astrazione intellettuale, è esattamente come il brutto, anzi è il brutto. Brutto «è il bello, in quanto resta fermo alla mera correttezza e non fa di essa il mezzo puro e semplice di una manifestazione ricca di sentimento» (Estetica del brutto, p. 96).
In ciò consiste l’originalità dell’impostazione e della riflessione rosenkranziana: la creazione di un vero sistema filosofico in cui il brutto possa trovare la sua ratio essendi e ratio cognoscendi. Paradossalmente, all’interno di questo sistema, non sarà il brutto ad avere bisogno del bello, ma il bello del brutto che, in quanto punto di passaggio, non possiede statuto ontologico se non in quanto trascendentale del bello stesso.
in sé, la nuda e indistinta identità non è ancora positivamente brutta, però lo diventa. La purezza di un determinato sentimento, di una determinata forma, di un suono, nell’immediato può essere perfino bella. Me se ci si manifesta sempre e solo quest’unità senza cesure, senza mutamento ed opposizione, ne deriva una triste povertà, uniformità, monotonia cromatica e sonora […] Il purismo in sé indistinto, ripetitivo, che si distingue solo nei confronti del nulla dell’assenza di forma, il purismo dell’univocità di forma e di colore, di suono e rappresentazione, diventa brutto, intollerabile (Estetica del brutto, p. 70).
Si è citato da Rosenkranz, Estetica del brutto [a cura di Sandro Barbera], Aesthetica Edizioni, Palermo 2004.
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