SERPENTI ED ESEMPI

Il 26 gennaio 2020 un elicottero, ingannato dalla fitta nebbia, è precipitato sulle colline nei dintorni di Los Angeles e in breve la notizia della morte di Kobe Bryant si è diffusa per il mondo lasciando increduli milioni di appassionati di pallacanestro e non solo. Nei giorni seguenti nel mondo reale e sui social network si è diffuso un sentimento di incredulità e smarrimento per la scomparsa del 5 volte campione NBA, giustificato solo in parte dal valore sportivo di Kobe Bryant.
Scrivere elogi ed esaltazioni sulla sua persona non è nelle mie intenzioni, in quanto ritengo sia una prerogativa di chi può averlo conosciuto in maniera davvero intima, con le sue luci e le sue ombre. Ma ciò che ha lasciato Kobe Bryant con la sua immagine pubblica è stato ed è sotto gli occhi di tutti, ha saputo imporsi come esempio, come vero e proprio simbolo di sacrificio, dedizione al lavoro e resilienza. Il suo soprannome “Black Mamba” e la sua mentalità, sono diventati un tratto distintivo e universalmente riconoscibile della sua carriera sportiva e non solo. Come il più velenoso dei serpenti, ha saputo meritare il rispetto e il timore da parte di compagni di squadra e avversari, mostrando un’etica del lavoro impeccabile, gli aneddoti sulla sua assoluta dedizione per l’allenamento e il superamento costante dei propri limiti sono tantissimi, chiunque lo incontrasse rimaneva impressionato dalla sua “Mamba mentality”.
Ma Kobe Bryant non si è limitato a questo, se da un lato non ha mai smesso di ricercare il proprio miglioramento per poter essere superiore ai suoi avversari, ha anche saputo comunicare in maniera estremamente efficace la sua attitudine vincente agli altri, è stato capace di motivare le persone negli ambiti più disparati, dallo sportivo professionista bloccato da un terribile infortunio, al ragazzino che gioca nel campetto di periferia, passando per lo studente che non riesce a superare un esame. Non è stato certamente la sola persona celebre a diffondere questo tipo di messaggi, ma ha saputo farlo con un’efficacia rara, rafforzata enormemente dalla coerenza del suo comportamento pubblico e da un’abilità propria degli Stati Uniti di esaltare l’archetipo dell’eroe e del guerriero anche in contesti moderni. Kobe Bryant non si è limitato a lanciare potenti slogan motivazionali, ha agito in modo che potesse essere considerato un esempio concreto e, unendo questo a una comunicazione efficace, ha creato qualcosa di estremamente potente.
Affrontare questo tipo di discorsi espone facilmente al rischio di cadere in facile retorica, ma in questo caso credo che il rischio sia esattamente opposto, ovvero sminuire l’impatto che l’immagine del Black Mamba ha avuto sulle persone che lo seguivano e si sentivano ispirate dai suoi messaggi. Uno dei sentimenti che più si respira ovunque si parli di lui dopo la tragedia di Los Angeles, è riconoscenza, chi è stato ispirato dalla sua immagine ha la consapevolezza di essere stato aiutato concretamente da ciò che Kobe trasmetteva. E questo mi ha portato a riflettere sulla potenza dell’esempio.
Per essere un vero esempio non è tuttavia necessario essere una celebrità mondiale, nel nostro agire quotidiano lasciamo un’impressione su coloro che ci sono vicini senza la necessità di mezzi di comunicazione di massa, qualunque essere umano viene inevitabilmente influenzato, sia in positivo che in negativo. L’etimologia stessa della parola esempio deriva dal latino eximere, ovvero trarre fuori e se l’accezione più comune può essere quella riferita all’emergere, distinguersi dalla massa, si deve considerare anche l’accezione di saper tirare fuori dagli altri; un esempio è tale se oltre a distinguersi dalla massa, ha la capacità di motivare gli altri a fare altrettanto.
L’apprendimento sotto forma di imitazione non è proprio soltanto degli animali, ma è insito nella natura umana. Basti pensare alle continue scoperte nel campo dei neuroni specchio, che si attivano nel nostro sistema nervoso quando osserviamo qualcun altro compiere un’azione; queste particolari cellule ci permettono di metterci nei panni dell’altro, di comprendere le sue azioni, imitarle, apprenderle. Le basi di questi processi sono in gran parte indipendenti dal nostro controllo, pertanto il comportamento degli altri lascia una traccia in noi, volenti o nolenti. L’etimologia di altre due parole, quali adulto e adolescente, può rimandare a questi concetti. Entrambe infatti derivano dal latino alere, ovvero crescere-nutrire; per sua definizione, quindi, l’adulto dovrebbe essere colui che è stato nutrito, mentre l’adolescente è colui che si sta ancora nutrendo. Il ruolo di adulti e adolescenti risulta sempre più confuso, senza una chiara transizione da una parte all’altra e con frequenti inversioni delle parti e turbamenti, dai quali non è esente il più esemplare di questi rapporti, ovvero quello tra figli e genitori. Ma queste interazioni vanno oltre e possono applicarsi a ogni rapporto, a prescindere da eventuali differenze di età.
Forse ritornare a una maggiore consapevolezza dei ruoli passa anche da una maggiore consapevolezza dell’inevitabile influenza che esercitiamo sugli altri. Rimaniamo animali sociali, l’estremizzazione dell’individualizzazione porta paradossalmente alla perdita del senso di sé, senza il riconoscimento dell’altro e un rapporto sano con esso, svanisce la possibilità di definirci, l’egoismo totale conduce paradossalmente alla perdita dell’Io. Questo non vuol dire rinunciare alla propria libertà di agire, né essere responsabili del comportamento altrui. Ma esiste un’influenza reciproca tra gli uomini e, forse, essere davvero adulti vuol dire agire in piena libertà, ma consapevoli della nostra possibilità di diventare degli esempi, positivi o negativi, e scegliere di conseguenza, in base alla propria coscienza, prendendosene la responsabilità.
Forse l’immagine pubblica di Kobe Bryant può davvero rappresentare un buon esempio di cosa voglia dire essere adulti. O forse tutto questo è solo uno sproloquio privo di fondamento, dettato dalla mancanza di un (buon?) esempio che mi abbia insegnato a stare zitto e a non trarre conclusioni affrettate.
Stefano Galati è su instagram e facebook
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