LA SPARIZIONE E LA MACCHINAZIONE
Nulla fa tanto rumore quanto lo scomparso. L’assoluta assenza di eco, quel ritorno acustico che traccia una presenza, rimbomba come non mai. Tuttavia, chi si accorge della scomparsa? Chi sa individuare l’attimo del trapasso, dello svanire, del farsi evanescente?
Siamo oggi alle prese con una innovativa gestione degli spazi e al cospetto di una modificazione delle strutture di interazione spaziale e, conseguentemente, di ridefinizione dell’intero posizionamento della nostra rete sociale. Alle prese con il web, e con i suoi corollari social, lo spazio stesso della rete si ricombina: si fa sempre più allocentrico (il centro è de-centrato, è in nessun luogo disseminato in una pluralità di sfericità autocentriche) di modo che il mio messaggio (il post che pubblico sul social di turno) si allontana sempre di più da me, rischiando di essere gestito dall’altro utente, ovverosia da tutti gli altri utenti (pensiamo al fenomeno del tagging e del repost). Come che sia, pur in questo allocentrismo di partenza, il messaggio mantiene il suo riferimento egocentrico (il fulcro del messaggio sono io e il mio valore sociale, il mio posto nella catena degli enti (Lovejoy) e nella mia rete sociale è diretta conseguenza dei miei “like”, che per sineddoche assurgono a nostro valore).
Interpassività è così stato definito questa peculiare situazione dell’era social (Žižek). Passività che nasce dall’inevitabile inabissarsi della soggettività nell’oggettività intagibile dell’immagine del profilo. Interpassività perché ineliminabilità di una implosione del messaggio: verrà veicolato il messaggio più potente, che non necessariamente combacierà con quello del mio post. All’interno di questa spirale di rinvii la sparizione sparisce nel realizzarsi – chi se ne accorge? – lasciandoci senza il corpo del reato (e senza di esso nell’indecisione se ci sia stato o meno reato). Perché lo scomparso è proprio il corpo, la carne nella sua carnalità, matericità e inviolabilità (vita grama per il voyeur: nessun corpo da spiare, nessuna carne da scoprire nello svelamento completo). L’inviolabilità del corpo si fa minima in quanto ridotta al minimo è la capacità di opacità, di resistenza addotta dal corpo. Assistiamo sempre più ad una forma quasi scientifica di disembodiment, di un corpo disincarnato, trasparente, attraversabile e, per questo, feribile quanto mai prima d’ora (pensiamo a quelle dinamiche del cyberbullismo: non è la forza del corpo ad avere il sopravvento, ma la sua trasparenza, la sua volatilità (se l’attuale società offline è la liquidità di Baumann, l’online è la volatilità aerea) la sua ubiquità. Il corpo-carne si frammenta in un immenso puzzle di immagini super flat identificando, e inchiodando così, il soggetto del messaggio che ne diviene soggetto, suo malgrado:
la fisicità e l’immediatezza del corpo reale vengono sostituite da un corpo virtuale, composto di una pluralità di immagini parziali e constestualizzate. Il mio corpo diventa la somma del mio volto truccato prima di andare a una festa, delle mie gambe e del mio seno il costume da bagno e così via (Giuseppe Riva, Nativi digitali, pp. 51-52).
Effetto di sineddoche: pars pro toto, la parte per il tutto. De-contestualizzazione e marmorizzazione, fissazione di ciò che si è recepito e che è così stato elevato a principio ontologico: nulla è come è, perché tutto è esattamente come appare.
Cosa resta di noi allora sul profilo? Ora che siamo identificati al profilo, quale spessore potrà avere un corpo scarnificato, un corpo scorporato? Però, non è forse la seconda vittima illustre, il secondo cadavere (ma ricordiamoci: senza corpo del reato non si è poi certi dell’avvenuto reato) di questo tecnico delitto perfetto (Baudrillard)? Ecco allora l’istituzione del parallelo: corpo-carne come l’arte. Difatti, cosa resta oggi dell’arte? Qual è lo stato dell’arte? Che fine ha fatto l’arte nella nostra iper produzione artistica (o presunta tale)?
In un celebre saggio degli anni ’30, L’opera d’arte nel’epoca della sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin ha posto l’attenzione su di un fenomeno nuovo per i tempi e dalle conseguenze epocali: l’opera d’arte di fronte ai ritrovamenti tecnici. Come sarebbe mutato il processo di creazione artistico grazie all’iniezione di nuovi sistemi produttivi, di nuove tecniche di elaborazione? Certamente la riproducibilità ha rappresentato una possibilità nuova e inaspettata per l’oggetto artistico; non più patrimonio ristretto ad una classe elitaria e privilegiata, non più oggetto circondato da un alone di sacertà eternante l’artista stesso, bensì un prodotto, creato in serie, possibilmente e auspicabilmente ri-producibile, reiterabile, non più unicum. Con l’introduzione nel campo artistico della tecnica è venuta meno quella che il filosofo tedesco denomina aura, cioè quella specificità inerente all’arte pre-riproducibile. La sparizione dell’aura deve, pertanto, essere valutata secondo le direttive anfiboliche della positività – disponibilità e partecipazione alla cultura estese al maggior numero di persone possibile (basti pensare alla diffusione della radio nei primi anni del XX secolo) – e della negatività – l’arte avrebbe così perso la sua differenza ontologica, si è fatta produzione e non più sovrappiù, scarto (che è sempre eccedenza e mai residualità deietta). Basti pensare ai Leftovers (1975) di Gianfranco Baruchello, a quei resti esclusi dal processo produttivo che, in quanto scarti e eccedenze, sono diventati il quid pluris artistico.
Walter Benjamin
Ma se de iure la sparizione dell’aura avrebbe potuto comportare, oltre all’innegabile polo negativo, anche un riferimento positivo, de facto quale direzione ha preso la storia? A questo quesito ha fornito una risposta degna di considerazione Jean Baudrillard: nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, l’arte si fa parte del mondo, si fa frammento del mondo, mera riproduzione avente come esito finale la sparizione dell’arte stessa nelle sue produzioni. La tecnica avrebbe un effetto di contraccolpo che farebbe sparire l’arte stessa e con essa i suoi oggetti (le opere d’arte per intenderci) che si farebbero così semplicemente immagini. E chi sarebbe stato il colpevole di questa sparizione, chi si sarebbe identificato nel processo tecnico tanto da esserne identificato? Per Baudrillard fu senza alcun dubbio Andy Warhol il quale avrebbe incarnato l’acme di questo processo produttivo tecnico-macchinale: da Warhol in poi l’oggetto artistico non può più essere identificato come semplice oggetto ma in quanto prodotto è divenuto ora un oggetto-feticcio, del tutto privo di valore; flat, è conseguenza di una trascrizione senza traduzione, registrazione senza pensiero, sequenza di sequenze senza montaggio, senza stile, dunque senza uomo («le style c’est l’homme»). Eliminazione dell’immaginario (che instaurerebbe una differenza di piani, verticale, trascendente): «Warhol parte da qualsiasi immagine per eliminarne l’immaginario e farne un puro prodotto visivo» (Baudrillard, Il delitto perfetto, citato in Carboni – Montani, Lo stato dell’arte, p. 197). Risultati di tale riorganizzazione industriale sono:
- la sostanziale indifferenza, nel senso di in-differenza, ovverosia perdita totale del senso della diversità, della diversione, della deviazione: nulla fa più la differenza perché nulla fa più differenza. Tutto è, ugualmente piatto, ugualalmente uguale. Nulla è perché tutto è, così, esattamente come così prodotto.
- l’ontologica insignificanza in quanto nulla significa altro, nulla può significare un qualcosa di diverso da quello che non significa: nulla ek-siste, nulla si staglia, nulla si erge: (il) nulla ascende (basti pensare alla pellicola cinematografica Empire, 1964, nella quale l’artista americano riprende L’Empire State Building per 8 ore e 5 minuti senza che accada alcunché: mera registrazione e trascrizione senza l’aggiunta di un significato specifico).
Ora, tali principi sono elevati in maniera tale da configurare la forma estrema di illusione: illusione che la trascrizione, in quanto parte del reale, sia quella differenza specifica che è l’oggetto artistico. Illusione che il mondo registrato dall’artista-macchina, comparsa di una farsa cosmico-storico, sia il modo vero, ma trasfigurato nell’atto stesso della riproduzione: non più mimesi e simulazione, ma trasfigurazione artistica, illusione dell’essere-artista potente grazie alla forza macchinale dello strumento tecnico, beato del «sorriso senza gatto» (Alice nel paese delle meraviglie):
[u]na macchina dovrebbe essere infelice, poiché è perfettamente alienata. Warhol no: egli inventa la felicità della macchina , quella di rendere il mondo ancora più illusiorio di prima. È proprio questo, infatti, il destino di tutte le nostre tecniche: rendere il mondo ancora più illusorio. Warhol ha compreso ciò, ha capito che la macchina genera l’illusione totale del mondo moderno, ed è adottando il gioioso punto di vista di questa rappresentazione macchinale che ottiene una specie di trasfigurazione, mentre l’arte che si crede tale fa soltanto la figura di una volgare simulazione (ivi, p. 203).
La scomparsa dell’arte ad opera di comparse, di maschere che si fanno macchine, che si fanno processi di trascrizione senza tradurre, flat e senza creatività. Alla macchinazione tiene dietro la sparizione, questa è la determinazione del mondo nell’era della tecnica.
Ma è tale determinazione destinalità ineluttabile?
Il testo di Giuseppe Riva è Nativi digitali, Il Mulino, Bologna 2019, seconda edizione.
Il volume antologico da cui ho tratto le citazioni di Baudrillard è Massimo Carboni – Pietro Montani (a cura di), Lo stato dell’arte. L’esperienza estetica nell’era della tecnica, Laterza, Roma-Bari 2006, seconda edizione.
Il testo di Jean Baudrillard citato nell’antologia è Il delitto perfetto, Raffaello Cortina, Milano 1996.
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- LA QUESTIONE DELLA TECNICA di Francesco Bellè LINK >>>
- GENTILE O SEVERINO, CHI È IL NICHILISTA? di eddymanciox LINK >>>
@RIELABORAZIONi GRAFICHE NEL CORPO DEL TESTO by, JOHNNY PARADISE SWAGGER ft. PATRICIA MCBEAL, 2020