CANTINO PUNTUALIZZA SUL NULLA (parte II)

Continua la controrisposta di Cantino a Caiano (da Cantino puntualizza sul Nulla (parte I), qui).
5.
CAIANO DICE:
Che significa negare il nulla? Significa porsi essenzialmente al di là della contraddizione essenziale che ci caratterizza, al di là della volontà di vita e di morte, al di là della lontananza dall’Essere e dall’eterno, al di là di fato e libero arbitrio, al di là di dei e demoni, di uomini e profeti. Negare il nulla significa comprendere che non ne facciamo mai esperienza, che il nulla non ha senso, che è il contenuto vuoto di un termine folle.
Caro Caiano,
non mi permetterei mai di negare il Nulla. Chi sono io, per poterlo negare? Nessun essere umano può negarlo, il Nulla, se ha un po’ di onestà intellettuale. Le faccio però presente che tutto lo sforzo filosofico di Emanuele Severino è teso a negare il Nulla per poter proclamare l’affermazione totale dell’Essere: TOTALITARISMO ONTOLOGICO puro. Per Severino, come lei certamente saprà, essere è assolutamente necessario, l’Essere ci sovrasta al punto che il Destino stesso si configura come una sua necessità: la necessità di Essere. Lei conoscerà quel famoso libro di Severino intitolato, non a caso, ‘Destino della necessità’ (1980).
Vede, questa mania severiniana di scomodare la filosofia greca per corroborare l’anelito ontologico all’essere – pensi ad Anassimandro e al suo presunto ‘detto’, detto come Severino vuole che sia detto – a me pare, questa sì, follia filosofica. Già Heidegger s’appellava a una grecità sopravvalutata e quindi mistificata, una grecità che, filosoficamente, sarebbe in grado di far luce su tutti i problemi dell’umanità. Sì, d’accordo, i filosofi greci avevano visto lontano, ma forse la loro vista non è così lungimirante… Anche Umberto Galimberti, che adoro, cade in questa sopravvalutazione, per la verità.
La contraddizione essenziale che ci caratterizza – eredità filosofica interpretata da Severino a suo modo – è contraddizione, appunto, sinché l’essere umano continuerà a viverla: la dialettica della contraddizione è irrisolvibile, finché noi continueremo a viverla esistendo.
Lei parla di volontà di vita e di morte… cos’è, la Volontà? A parte la bella definizione predesistenziale di Schopenhauer, che lei conoscerà, la volontà è essenzialmente, in senso lato, la libertà di volere, è la possibilità di un atto libero; ora, le pare che noi siamo (stati) liberi di volere la vita? Non siamo nemmeno liberi di non volere la morte, figuriamoci la vita! Però, se ci pensa, noi possiamo essere liberi di non volere la vita, non per noi, che ormai ci siamo già, ma per i figli, non dico i nostri figli (dacché essi, se ancora non ci sono, nemmeno possono dirsi “nostri”), per i figli che non vorremo mettere al mondo. Noi umani siamo padroni di una Volontà futura, per così dire, una Volontà passibile di realizzazione futura, o attuazione, futura (se preferisce un modo di dire più aristotelico).
Riprendo la sua espressione: “al di là di fato e libero arbitrio”. Ebbene sì, caro Caiano: al di là del fato. Il fato, nella sua origine etimologica, è qualcosa che è stato irrevocabilmente ‘detto’ (lo sa bene, Emanuele Severino). Il fato, se può darsi, è la negazione più totale del nostro libero arbitrio, della nostra libertà: se ‘sta scritto’, che noi dobbiamo esistere, chi ci salverà dall’esistere? Il libero arbitrio è ingoiato ipso facto nel Fato, se Fato può darsi.
Poi, lei dice che “negare il nulla significa comprendere che non ne facciamo mai esperienza”; come facciamo, noi umani, a fare esperienza del Nulla? Mi dica, lei ha mai fatto esperienza del Nulla? Io no. Parlo ovviamente del Nulla mitologico di un’ermeneutica ontologica od ontoteologica che vola alta sopra le nostre teste, e che quindi, in ultima analisi, non ci riguarda. Sono d’accordo: noi facciamo solo e sempre esperienza dell’essere; ma, lei vuol dire che al di fuori dell’essere non può esserci esperienza? Non esperienza come siamo soliti intenderla filosoficamente, forse. Ma, caro Caiano, provi a riflettere senza pregiudizi: non trova che noi premettiamo l’essere innanzitutto proprio perché già siamo nell’essere? Perché siamo già in vita, già esistenti? Il linguaggio stesso dei viventi, la lingua che loro usano, che noi usiamo, non può considerare una grammatica, una logica, una analisi logica che prescinda dall’essere. Ma questo, Caiano, le pare un buon motivo per giudicare folle chi cerca di mettersi al di là delle strutture logico-grammaticali? Il Nulla è un contenuto vuoto di un termine folle, come lei dice, solo se lo presumiamo appunto un contenitore il cui contenuto è il Tutto, l’Essere che lo avrebbe vinto e che lo userebbe per starci comodo dentro (magari anche per farci un pisolino…).
QUIDQUID RECIPITUR, AD MODUM RECIPIENTIS RECIPITUR.
6.
CAIANO DICE:
La differenza insanabile tra “vita” e “Gioia” implica la necessità di un oltrepassamento radicale.
Caro Caiano,
lei adesso sta facendosi proprio voce di Emanuele Severino: la conosco bene, questa sua mai sazia fame di gioia; ma che poi è anche la nostra, la gioia che tutti desidereremmo, chi può negarlo? Vede, in questi giorni, come forse saprà, sto scrivendo le mie lezioni di ‘Meontologia della libertà’ come antidoto desistenziale alle lezioni di ‘Ontologia della libertà’ di Luigi Pareyson. Pareyson e Severino sono due filosofi molto influenzati dal cattocristianismo; se lei ci fa caso, certi modi di dire, certi filosofemi hanno la loro matrice nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Certo, poi loro si permettono di dare una versione riveduta e corretta della teologia cattolica, una versione personalizzata filosoficamente, ma lei, caro Caiano, sa che le velleità filosofiche di Severino in fatto di teologia sono state aspramente criticate dalla Santa Sede. Sia Severino sia Pareyson sono essenzialmente due eretici, in fatto di fede.
Detto ciò, e tornando a quella GIOIA che lei scomoda, credo pensando ai testi severiniani, non le nascondo che mi suscita sempre un certo fastidio: quando si parla di qualcosa che non si ha, alla lunga si perdono le staffe; lei è contento, Caiano? Prova gioia? Mi risponderà: qualche volta. Anche lei è un essere umano e non credo che abbia la soluzione in tasca, in fatto di gioia. Ma, l’oltrepassamento radicale di cui lei parla, o, meglio, scrive, è un passaggio oltre cosa? Oltre che cosa? Se oltre la morte, allora lei desidera la gioia posponendola, escatologicamente, altrove, in un altro mondo, o perlomeno in un’altra dimensione. Penso che su questo non ci piova. Io, desistente, invece, m’accontento di molto meno; per non dire che non amo il rischio: e se la GIOIA di cui lei parla, Caiano, se la GIOIA di cui lui parla, Severino, non può darsi da nessuna parte? Cosa dobbiamo oltrepassare? Perché dobbiamo oltrepassare? L’ulteriorità dell’OLTRE è assai insidiosa, è terreno scivoloso; Severino, pieno di speranza cristiana, ha potuto pensare che questa GIOIA ci attende, al di là di quello che noi siamo ora, adesso, hic et nunc. Ma, e mi spiace ripeterlo, il nostro buon Severino era una persona sensibile distrutta dalla perdita della moglie, distrutta dai dolori della vita… è normale per noi umani desiderare massimamente ciò che massimamente non abbiamo. Tutti desiderano soprattutto ciò che non hanno.
Il pensiero desistenziale si propone proprio di non desiderare una GIOIA che l’uomo non può procurarsi da solo: ogni GIOIA che trascende il nostro stato non dipende da noi. Mi spiace dire delle banalità di questo tipo, ma certe volte sono proprio le banalità quelle che, riconsiderate senza sufficienza, potrebbero offrire certe chiavi di lettura. La GIOIA del desistente è per i figli non nati: il desistente sa che ormai per lui la GIOIA è impossibile, da che egli è nato. In nostro potere è solo il nostro futuro, non certo il presente, né tantomeno il passato. Se il nostro passato è ciò che non eravamo ancora, ebbene è lì che dobbiamo cercare la nostra GIOIA, con tutte le nostre forze.
7.
CAIANO SCRIVE:
Noi non siamo “altro” dalla nostra salvezza. Non dobbiamo ricercarla nella morte o nella trascendenza metafisica, perché noi siamo già eternamente salvi.
Caro Caiano,
lei s’è mai chiesto da cosa o da chi noi umani dovremmo salvarci? No, perché questa mania della SALVEZZA attraversa l’Umanità illudendola, certe volte. Non parliamo del Cristianismo: in esso la SALVEZZA troneggia come lo scopo ultimo della storia dell’Umanità in grazia dell’incarnazione di Dio; lasciamo stare questa soluzione ben nota, che a me non è mai piaciuta, perché ci obbliga a credere a un Peccato originale al quale è difficile credere. Cristianismo a parte, io credo che noi dobbiamo innanzitutto salvarci dal dolore, dall’ontalgia: dal dolore di essere. Quando lei dice che noi siamo già eternamente salvi, io in questa affermazione ci sento Severino e il suo credo cattocristiano.
Mentre io e lei stiamo disquisendo in questa sede, altrove la gente subisce un virus chiamato COVID-19. Attorno a noi tanti esseri umani vogliono salvarsi, salvarsi dalla morte. Caro Caiano, immagini un dottore che, in un reparto di rianimazione, dica a un moribondo intubato: coraggio, stia sereno, lei è già eternamente salvo… Immagina le conseguenze? Come reagirebbe, questo disgraziato? Che magari non conosce nemmeno la filosofia ottimista di Emanuele Severino… No, Caiano, no.
Quando noi cerchiamo di filosofare dobbiamo sempre cercare di immaginare che effetto potrebbero fare le nostre parole su un essere umano che si trova nell’unica condizione nella quale la Vita si presenta veramente per quel che è: vicina alla morte. Se ciò che filosofiamo può essere accettabile, di fronte a un moribondo, allora avremo filosofato dignitosamente. Lo so che un moribondo vorrebbe magari sentirsi dire che lo aspetta una vita migliore e cose del genere; morire, però, è davvero passare a miglior vita, come si dice. Lei, Caiano, se la sentirebbe, di illudere uno che sta per morire con l’ennesima menzogna? O comunque con l’ennesima verità tutta da dimostrare?
Ho dedicato molto tempo ad indagare cosa intendessero i filosofi e i teologi, quando parlano di SALVEZZA e sempre ho trovato che essi parlano di SALVEZZA DALLA MORTE; salvarsi è sempre SALVARSI LA VITA. Non è d’accordo? E non le pare questo un desiderio egoisticamente ontologico? Quanto ai sintomi benefici della SALVEZZA, fra essi vorrei ravvisare almeno la felicità, quella GIOIA che Emanuele Severino tanto magnifica.
8.
CAIANO DICE:
L’esistenza è (anche) dolore se pensata astrattamente dal destino, al di fuori di esso.
Caro Caiano,
lei lo sa che scrivendo queste cose sta citando il suo Severino; lo sa, vero? La rende felice, credere al verbo severiniano? O forse lei vuole crederci per poter essere felice? Come fanno tanti cristiani che credono disperatamente di credere al Signore della Vita per poter non credere alla Morte come parola ultima della stessa.
DESTINO. Guardi, la voglio prendere in parola: in questo momento, in cui come sempre sono incazzato con la vita per tanti motivi, mi sto pensando come parte di un Destino più grande di me. Sto facendo ogni sforzo per riprovare a credere al Verbo severiniano, ma, le assicuro, non funziona. Il Destino di cui Severino parla non ci lascia scampo, non ci lascia liberi. Caiano, dica la verità non s’è mai sentito braccato, senza scampo, pensando a quel mostro osceno che è il Destino così come lo vorrebbe Emanuele Severino? La consola così tanto, il Destino necessario di Severino?
Legga, Caiano, legga:
«L’apparire attuale – scrive Severino – è l’evento trascendentale, che in sé raccoglie ogni cosa che appare e quindi anche ogni particolare apparire. Non è dunque un presente temporale, che stia tra un passato e un futuro, ma l’orizzonte che include la totalità del tempo. In duplice senso l’apparire non è nel tempo: perché, come ogni essere, è eterno, e perché non può apparire il sorgere e il tramontare dell’apparire (ma può solo apparire il sorgere e il tramontare dell’apparire di una determinazione particolare dell’essere). Nel tempo è ciò che compare e sparisce – ciò che prima non appariva e poi non appare più; ma l’apparire, come evento trascendentale, non può sopraggiungere e uscire da se medesimo.» (Essenza del nichilismo / Il sentiero del Giorno, pag. 178).
Le pare consolante? E termino auocitandomi:
Il motto con il quale io sto conducendo questa campagna antiseveriniana (non contro il buon Emanuele Severino, ci mancherebbe, bensì contro il suo assolutistico totalitarismo ontologico) suona: «libera iniziativa in libero Inizio»; potrebbe anche suonare ‘libero inizio in libero Principio’, ma l’importante è capirsi: come “libera Chiesa in libero Stato” fu il motto al quale si ispirarono prima il pastore calvinista francese Alexandre Vinet (1797-1847) – Église libre dans l’État libre – e poi Charles de Montalembert (1810-1870) – Ecclesia libera in libera Patria – nonché il nostro Cavour (1810-1861) – libera Chiesa in libero Stato –, così noi desistenti rivendichiamo il diritto di liberalizzare l’inizio laicizzandone il Principio.
liberŭm ĭnĭtĭum
in liberō principiō
P.S. Lei ha avuto la fortuna, signor Caiano, di scrivermi in un periodo di “vacanza” dalla scuola; anzi, meglio; in un periodo di ‘scuola vacante’. Diversamente non avrei mai potuto avere tutto questo tempo da dedicarle. Ma sono contento di avere tutto questo tempo, perché la sua critica al mio Desistenzialismo è intelligente e, soprattutto, rispettosa.
DEXISTENS
Progetto Dexistens nel Network di Arena Philosophika, per vedere la home di Dexistens clicca qui.
Grassettature e ri-editing di eddymanciox.
@ILLUS. by JOHNNY PARADISE SWAGGER feat. PATRICIA MCBEAL, 2020
Disputa sul Nulla
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@GRAFICS by JOHNNY PARADISE SWAGGER, 2020
Caiano ha ribattuto
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