CORPO E ANIMA TRA CARTESIO E PLATONE
Il presente contributo, a opera del sottoscritto Pietro Caiano, si propone di fornire una piccola riflessione circa il rapporto tra corpo e anima a partire da alcune suggestioni derivanti dal confronto col pensiero, in merito, di Cartesio e Platone (per quanto riguarda quest’ultimo si fa riferimento al Timeo).
René Descartes (1596-1650), che potremmo definire “il filosofo del dubbio”, tratta della questione corpo/anima nelle Meditazioni Metafisiche. Partendo dal presupposto che alle percezioni accolte dalla coscienza debba corrispondere una realtà, causa di quelle stesse percezioni, Descartes (certo solo del cogito, dell’idea innata di Dio e delle verità matematiche) è costretto ad affrontare la difficile relazione che intercorre tra quegli oggetti del percepire e del conoscere e il principio dubitante, ovvero tra la res cogitans e la res extensa.
Il dualismo cartesiano tra coscienza e realtà è nettissimo, dal momento che è ineliminabile la percezione dell’agire su ciò che è “altro” dalla sfera della coscienza. Ma, appunto, come interagiamo con il mondo? Per tentare di dare una risposta a questo quesito – che è, in ultima analisi, quello del rapporto anima/corpo, se pensiamo alla coscienza come l’immateriale che ci dà vita ed intelletto – è necessario trovare un modo per unire, coniugare, conciliare ciò che non ha materia con ciò che non è altro che corpo, la realtà totalmente estranea a noi, governata da leggi materiali immutabili – si pensi a Galileo Galilei (1564-1642). Descartes propone una peculiare soluzione: afferma, infatti, che il contatto tra res cogitans e res extensa avviene in una specifica parte del cervello, la cosiddetta “ghiandola pineale” (oggi conosciuta scientificamente con il nome di “epifisi”), l’unica a non sdoppiarsi tra lobo destro e sinistro, la sola quindi a poter unificare non solo la struttura meccanico-anatomica del corpo umano nel suo insieme, ma anche il fulcro razionale e coscienziale dell’individuo con la sua componente materiale. Ricordiamo che questo punto di contatto deve essere tale da poter trasmettere la causalità efficiente degli oggetti sulla coscienza (mediante la sensazione) e viceversa la causalità efficiente della coscienza sulla materia, in prima istanza sul corpo umano e in seconda sulla realtà esterna comunemente intesa, così da rendere pensabile l’intercessione della res cogitans nella catena degli eventi.
La soluzione di Descartes, secondo molti interpreti, lascia molto a desiderare. Il motivo principale dell’inadeguatezza di questa spiegazione può essere esposto come segue:
– la res cogitans è immateriale e, essendo radicalmente distinta dalla res extensa, non estesa;
– ciò significa che la coscienza non occupa alcuno spazio;
– ciò che non occupa spazio non può essere a nessun titolo definito come “presente” (anche l’aria e le particelle che la compongono sono a qualche titolo definibili come “immateriali” pur essendo estese, ma questo non è il caso del nostro principio coscienziale).
– in che modo, dunque, può ciò che non è in alcun modo presente causare e ricevere gli effetti di cause (percepire ed esprimere impulsi d’azione sulla realtà)? In che modo, quindi, la ghiandola pineale può configurarsi come quel luogo in cui un principio senza luogo determina ed è determinato dalla materia?[1]
La conclusione resta, ineludibilmente, aporetica. Un tentativo originale di ovviare a questo problema è stato proposto da Gottfried Leibniz (1646-1716), il quale ammise l’impossibilità di un contatto tra una coscienza – la monade –, per sua natura affine a quella cartesiana, e la materia – monadica a sua volta. Leibniz, infatti, spiegava l’innegabile “apparente” corrispondenza tra contenuto coscienziale e reale in virtù di una “Armonia prestabilita”, garantita da una figura terza, ovvero Dio.[2]
Ma siamo sicuri – lasciando da parte la tarda modernità e la contemporaneità – che questa fosse, per così dire, l’ultima parola sull’agognata problematica del rapporto corpo/anima? È opportuno fare un plurisecolare passo indietro, per considerare il filosofo ateniese Platone (428-348 a.C.). Nel Timeo, uno dei suoi ultimi dialoghi, egli fa pronunciare all’omonimo protagonista un lungo monologo in cui racconta la generazione del cosmo nel suo insieme, dalla conformazione dell’anima cosmica fino a quella delle singole specie di viventi; si tratta, in altre parole, del celebre “mito del demiurgo”.
Il dibattito sull’esegesi di questo dialogo ha diviso e divide gli interpreti: c’è chi sostiene che dall’opera si possa evincere che il cosmo è stato generato in tempore (scuola esegetica dei “temporalisti”) e chi invece propone una lettura marcatamente metaforica del dialogo, affermando che in realtà Platone intendesse dire che il cosmo è generato nell’eterno, senza un inizio ed una fine dell’azione creatrice, e che la stessa figura del demiurgo, da assimilare in tutto e per tutto al modello ideale, è in realtà anch’essa parte di una grande metafora (scuola degli “eternalisti”).
Tali questioni, per il momento, possono essere tralasciate. Ciò che a noi interessa, all’interno di questo ricchissimo e freschissimo dialogo, sono i passi in cui viene descritta la generazione degli esseri umani da parte dei cosiddetti “dei minori”, i veri e propri mandatari del demiurgo. Timeo racconta come l’anima immortale sia inserita nel corpo mortale, e di come essa sia subito colpita da movimenti disordinati e caotici, derivati dalla congenita imperfezione del principio materiale (chora – χώρα), da cui il corpo è costituito; in queste condizioni, l’anima immortale non è più in grado di esercitare il moto proprio dei due “cerchi” da cui è costituita (il cerchio dell’uguale e il cerchio del diverso), che è un moto circolare perfetto – il cerchio e l’orbita sono, se vogliamo, il marchio di fabbrica della realtà iperuranica e della perfezione intelligibile, calate nel sensibile per permettere la generazione dei mortali. Citando il testo (44 a-b), “… è precisamente a causa di tutte queste affezioni (i moti disordinati della materia) che l’anima diventa priva di ragione, non appena venga legata ad un corpo mortale” (trad. F. Fronterotta). Più i cerchi sono deviati dall’intervento dell’irrazionale affezione del corpo, meno le facoltà dell’anima – che è, in quanto immortale, razionale – potranno essere espletate. Di conseguenza l’errore, la confusione percettiva, l’irrazionalità e le azioni malvagie altro non sono che il risultato della corruzione dei moti perfetti del “principio divino” (la stessa coscienza umana). Ciò che, in un dialogo della maturità come la Repubblica, era legato all’ambito della cosiddetta “anima irrazionale”, a sua volta divisa in animosa e desiderativa (rispettivamente, cavallo bianco e cavallo nero nel mito della biga alata), perde qui nel dialogo del Timeo qualsiasi connotazione marcatamente psichica, per essere relegato alla sfera della materia che interferisce con l’unica anima vera e propria, quella razionale.
Per giungere, in qualche modo, alla conclusione di questo percorso, è necessario comprendere le modalità di interazione, in senso stretto, tra anima e corpo. A differenza di quanto avveniva in Descartes, il principio psichico-coscienziale non è inesteso: la sua sede è la testa (che, in quanto sferica, è il luogo perfetto per accogliere un elemento di natura intelligibile ed iperuranica). Questo significa che la testa è lo spazio che contiene l’anima. Per questo motivo essa, pur non essendo materiale, è presente. Questo cambia tutto, rispetto al contesto della metafisica cartesiana. Infatti il “principio divino” agisce per mezzo del cervello (causalità efficiente) e riceve le sollecitazioni – perlopiù negative – del corpo mediante alcuni organi tra cui il fegato ed alcune sostanze tra cui la bile. L’anima, dunque, è soggetta all’agire (“alla testa gli dei offrirono come servitore tutto il corpo” (44 d)) e al patire. Agire e patire sono i due momenti della polarità platonica, il connotato fondamentale del pensiero del filosofo ateniese. Ciò che salva l’anima dall’irreparabile scissione (chorismòs – χωρισμός) con il corpo, la quale renderebbe inspiegabile – se non impossibile – l’innegabile compenetrazione e comunanza di accadimenti tra la sfera coscienziale e quella della realtà esterna, è l’estensione dell’anima, la sua proprietà fondamentale di occupare un luogo fisicamente definito all’interno della struttura anatomico-meccanica che prende il nome di “corpo umano”. In questo modo, l’anima è causa efficiente, causa teleologica e causa formale del corpo e delle dinamiche materiali (ricordiamoci della sua provenienza iperuranica) . In questo modo, non si incorre nell’aporia in cui si sarebbe poi incagliato Descartes, circa duemila anni dopo.
A Platone, a cui spesso si è guardato con disprezzo o quantomeno con un distacco apparentemente giustificato dalla lontananza culturale e temporale, bisognerebbe invece ritornare, coscienti del fatto che nei meandri di quell’immenso pensiero è possibile trovare le risposte – o, se non altro, gli spunti teoretici per la formulazione delle risposte – ai quesiti più vivi e pregnanti della filosofia contemporanea e di tutti i tempi.
[1] La soluzione della ghiandola pineale venne rifiutata dall’occasionalismo, in Francia diffusosi con L. de La Forge, G. de Cordemoy e soprattutto Nicolas de Malebranche, massimo esponente del cartesianismo francese. Mente e corpo non possono in alcun modo toccarsi, è Dio il responsabile del rapporto tra le due sostanze: gli eventi corporei sono l’occasione per l’intervento causale di Dio sulle menti, e viceversa, a Sua discrezione.
[2] Leibniz su Cartesio, Monadologia: “80. Cartesio ha riconosciuto che le anime non possono assolutamente imprimere forza ai corpi: nella materia, infatti, la quantità di forza è sempre la stessa. Egli ha però errato nel credere che l’anima fosse in grado di cambiare la direzione dei corpi. […] Nella materia si conserva anche la stessa direzione totale. Se Cartesio avesse conosciuto [ciò], sarebbe senz’altro giunto al mio Sistema dell’Armonia prestabilita. 81 Il Sistema dell’Armonia prestabilita fa sì che: α) i corpi agiscano come se – per assurdo – non ci fossero anime; β) le anime agiscano come se non ci fossero corpi; γ) l’anima e il corpo agiscano come se si influenzassero a vicenda.”
Per la stesura dell’articolo l’autore si è avvalso de Timeo (a cura di F. Fronterotta, BUR, Milano – 2018, ottava edizione), de Introduzione a Platone (F. Ferrari, Il Mulino, Bologna – 2018) e del proprio manuale di filosofia del liceo La ricerca del pensiero, di N. Abbagnano e G. Fornero. A questo vanno ricondotte le interpretazioni del pensiero di Cartesio.
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