ISTORIARE
1º gennaio 2021, ore 7 circa.
Dicono che oggi è capodanno. Ma cosa vuol dire? Che inizia un anno nuovo? E perché? Chi l’ha detto?
Guardo fuori: nevischia. Tempo plumbeo. Allegria! – Così, tanto per omaggiare quel simpatico sempliciotto di Mike Bongiorno…
Il tempo. Non c’è nulla di più anonimo e impersonale: ma cosa ne sa, il tempo, di capodanno? Non ha né capo né coda, il tempo. Manco esiste, il tempo, in sé.
Su un albero, là, fuori, si deposita un po’ di neve: e dovrebbe essere suggestivo? per i bambini, magari.
Con questa maledetta mania di dare significato a tutto, l’essere umano – essere senza significato per definizione – ha istoriato nientemeno che il tempo: l’ha istoriato con le festività.
Istoriare: https://www.treccani.it/vocabolario/istoriare/
istoriare (ant. storiare) v. tr. [der. di istoria, variante ant. o letter. di storia, nel senso di «figurazione di un fatto»] (io istòrio, ecc.). – Adornare una superficie con la raffigurazione (in pittura, scultura, ecc.) di immagini relative a fatti storici o sacri o leggendarî: i. una parete; Quiv’era storïata [nel marmo, in rilievo] l’alta gloria Del roman principato (Dante). Non com., illustrare un libro a stampa. ◆ Part. pass. istoriato (ant. storiato), anche come agg.: porte istoriate, di una chiesa, di un battistero; capitello istoriato di motivi biblici; vasi istoriati con episodi del ciclo troiano.
Bisogna pur figurarsi qualcosa, no? Sennò che figura ci fa, l’uomo? Il Creatore si figura le sue creature e queste si figurano altre creature: è tutta una questione di figurazione. È prolifica, la fantasia…
La Storia è un tempo figurato: raffigurato dalla creatività delle mente umana, la quale non può fare a meno di giocare con le figurine, come un eterno bambino.
Gioco educativo? Cosa ci può essere di educativo nel gioco dell’istoriazione? Mi sembra al contrario altamente diseducativo far fare alle cose la figura che vuole l’uomo: chi può conoscere la figura delle cose?
Nel mondo della scuola esiste la cosiddetta ‘figura strumentale’ (F.S.): si tratta di docenti che, poveretti, devono garantire la realizzazione del Piano dell’Offerta Formativa. POF! – novella esclamazione che sta per POFFARBACCO! –: che offerta formativa offre il tempo? Uno potrebbe rispondere che il tempo sforma corpi: uccide viventi che, decomponendosi, perdono forma, si sformano sino a diventare irriconoscibili.
POF! Andrebbe censurata, l’offerta formativa del tempo. Lui, il tempo, ricomincia sempre daccapo ogni anno; noi, gli umani, ci illudiamo di poter azzerare la sfiga alla mezzanotte di ogni 31 dicembre salvo accorgerci che la sfiga non passa mai.
Ma è poi vero, che il tempo ricomincia daccapo ogni anno? Sì, certo, le stagioni sono periodiche, ritornano annualmente, ma basta andare in diversi luoghi del pianeta per scoprire che questa periodicità non è poi così rigorosamente… “annuale”. In certe zone ultrasettentrionali non si può nemmeno parlare di periodicità di giorno e notte. Ma sentito parlare di notte polare?
Sicuramente è per questa algida e frigida assenza di senso che gli umani cercano di riscaldare un po’ ciò con cui hanno a che fare, cercano di emotivizzare la frigidità della Natura, per esempio, di cui il Tempo sarebbe una componente non da poco. Ma la Natura rimane algida e frigida: fredda e senza “cuore”, al di là delle raffigurazioni più o meno efficaci che l’umanità si sforza di istoriare.
Sono andato sul balcone, ho fissato con intensità l’albero innevato che mi stava davanti agli occhi, l’ho quasi corteggiato pensandolo come una bella donna incipriata, incipriata di nevischio, ma niente: quell’albero non ne sapeva niente di capodanno e cose del genere. L’uccellino che si era posato su una delle sue braccia, voglio dire dei suoi rami, fischiettava, ma non si capiva se fischiava all’albero come si fischia a una bella gnocca oppure se cantava per se stesso come fanno certi umani sotto la doccia.
Una doccia di neve. POF! Poesia scadente delle istoriazioni umane. E perché mai dovrei essere contento di stare qui all’alba di capodanno sul mio balcone ad ammirare un albero incipriato dal quale un pennuto emette suoni che non si sa bene se siano canti o fischi? Ah! Forse dovrei essere contento per quella bella corona di Alpi che fa da orizzonte alla mia visuale domestica in questi tempi di coronavirus?
Quando lasciai Torino per venire ad abitare qui, in campagna, dove istoriare sembra più facile, mi illusi di poter fare anch’io la mia bella figura, in questo scenario idillico: come un figurino ad una sfilata di moda… un bellimbusto démodé. Comprai un alloggio con una vista mozzafiato; ma, col tempo, scoprii che un belvedere lo si apprezza quando non lo si può vedere da casa propria, e non quando ti basta andare sul balcone per vederlo: troppo facile. Noi umani siamo fatti così male che non sappiamo nemmeno godere delle cose, quando le abbiamo; più facile soffrire per ciò che non si ha.
Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me. Dentro… Sopra… Ovunque guardi io non vedo che delle storie. Che storia è, quella di questo cielo stellato all’alba di capodanno? L’ho chiesto, al cielo, ma non ne sa niente, di capodanno! Che storia è, quella di questa legge morale all’alba dell’umanità? L’ho chiesto all’uomo, ma non ne sa niente, di caposaldo etico.
La filosofia, anche quella di Immanuel Kant, è soltanto una bella storia e i filosofi sono maestri abilissimi nello storytelling: l’arte dell’istoriare. In questo, filosofi o meno, siamo rimasti tutti bambini: ci terrorizza, una vita senza storia, una camera senza balocchi, una parete senza quadri…
Ricordo il giorno, funesto, in cui, fanciullo, volli strappare ai due diffusori del mio stereo quel tessuto che nasconde i poco estetici altoparlanti: che delusione! Una vera e propria deflorazione. Tanto bello era istoriare con la fantasia i suoni che uscivano dal rivestimento delle casse stereo quanto brutto fu deflorare con un coltello il Velo di Maya della fenomenicità acustica.
Le donne… Non credo che si mettano addosso dei vestiti solo perché si vergognano della loro nudità; anzi, a dirla tutta, credo proprio che esistano due tipi di donne: quelle che, malfatte, non lasciano vedere le loro forme perché le si potrebbe desiderare di meno e quelle che, benfatte, lasciano intravedere la loro formosità perché la si possa desiderare di più.
Nigra sum, sed formosa. Sono nera, ma bella. Che frase razzista! E pensare che viene dal Cantico dei Cantici della istoriatissima Bibbia! Vallo a dire a Naomi Campbell – nigra es, sed formosa – e poi guarda se non s’incazza…
Albus sum sed luxuriosus. Sono bianco ma lussureggiante. Così mi sembrò dire l’alberello innevato che stamane – un po’ lussurioso, per la verità – mostrava con orgoglio la cipria che copriva la sua nudità, nudità di fogliame, ovviamente, siamo d’inverno… Come mai questa mattina istorio in modo così pruriginoso questo povero vecchio alberello? Sarà il capodanno, che ci fa svegliare tutti sempre un po’ arrapati?
Quand’ero giovane i miei coetanei dicevano che nella notte di San Silvestro le femmine sono tutte più compiacenti, più disponibili… ed io, puntualmente, vestito come un figurino, andavo al veglione per cercare di rimorchiare. Ed effettivamente, sì, in qualche misura era pure vero: era più facile conquistarsi una donna; e per che altro, un maschio in età da monta e con gli ormoni a palla, dovrebbe farsi bello per andare a un veglione di capodanno?
Che bella, la giovinezza! Le ragazze giovani dei veglioni della mia giovinezza non avevano bisogno di cipria, per istoriare il loro viso da favola: le guardavi e la tua storia mentale cominciava all’istante, spesso ricambiata. Cipride è l’epiteto di Venere, cioè di Afrodite, regina di Cipro, e Cipro è l’isola dedicata alla dea della bellezza e dell’amore: Venere Afrodite. Ma la cipria non è afrodisiaca, dal momento che chi deve mettersela ha già qualcosa di brutto da nascondere…
Essendo sposato e non essendo più giovane, da anni ormai ho appeso al chiodo la maschera di dongiovanni che in altri tempi indossavo con libidinoso tripudio nei veglioni di San Silvestro; così, ieri sera ho preso due compresse di sonnifero, mi sono messo due solidi tappi nelle orecchie, ed ho dormito senza interruzione dalle ore 21 alle ore 7: giusto in tempo per vedere la fine del coprifuoco. Credo però che i giovanotti che questa notte si sono messi la maschera da dongiovanni abbiano purtroppo dovuto coprirla con un’altra maschera, quella del dongiovanni: la mascherina chirurgica.
“Farsi una storia”. Se ne fanno tante, i giovani. “Farsi una storia” è istoriare qualcosa che in realtà ha un sostrato assolutamente disincantato: senza storia. La Natura, algida e frigida, non ha storia: è persino senza tempo. Siamo noi, umani, a non sopportare una vita senza storie. Da piccoli ce le facciamo raccontare dai nostri genitori e da grandi ce le raccontiamo da soli (e magari le raccontiamo anche ai nostri figli, se ne abbiamo). Questa è la differenza fra un bambino ed un adulto: l’adulto cerca di raccontarsele da sé a se stesso, le storie; sempre che ci riesca.
I desistenti esistono: esistono senza tante storie, esistono senza più istoriare; non ci riescono più, a raccontarsele, queste storie. Perché sono fandonie, ecco perché. Perché sono sovrastrutture mentali fatte apposta per edulcorare la realtà: sono un trucco con il quale abbellire qualcosa. Le donne la sanno lunga, su questo genere di trucchi… Per esempio, in un bar dove vado qualche volta a colazione al mattino presto, c’è una barista, sui quarant’anni, che ogni tanto si mette ancora la gonna e – udite! udite! – le calze di nylon: talvolta calze nere, talvolta di altri colori… le donne d’oggi, tanto per cambiare a tutti i costi le mode, le calze di nylon non le mettono quasi più (la gonna non parliamone!): fanno male, perché il nylon è un Velo di Maya potentissimo per occultare e istoriare la cosa in sé.
La cosa in sé. Non è poi così difficile capire cosa sia: quella barista della quale dicevo, pochi giorni fa la vedo con ampie e spesse garze che le fasciavano una gamba; le chiedo cosa le fosse successo e lei mi risponde che da tempo soffriva di vene varicose: aveva dovuto farsene sfilare una grossa grossa, che le faceva proprio male, ma adesso finalmente andava meglio. Ecco un esempio di cosa in sé: una gamba piagata e sformata da una grossa vena varicosa. Quella barista ora ha ripreso timidamente a velare di nylon le sue belle gambe, ma il miracolo non avviene più: lei per prima non ci crede più, ed i suoi clienti dopo di lei; un Bar potrebbe addirittura perdere clienti, per una cosa come questa. Sì, perché lo sanno tutti che il caffè è un modo per istoriare la vita, una storia che ti fai raccontare da un barista, meglio se da una barista, possibilmente avvenente, in un locale nel quale si… bara: un Bar è un locale con quattro pareti nel quale si compie il trucco dell’istoriazione.
La forma è tutto. A capodanno mi capita sempre di ricordare i visini del miei amori giovanili: perché li amavo? perché mi eccitavano? per la loro forma. Ogni figura ha una forma, sennò non è una figura. E se istoriare significa raffigurare, allora significa anche formare, dare forma. Ci sono le belle arti e ci sono le belle forme. Per carità, non cominciate a dire che ho la sindrome di Peter Pan! Forse che non rimpiangete anche voi le belle forme? O almeno quelle che piacevano a voi?
Da’ a un giovane maschietto un visino femminile dalla forma graziosa e con molta probabilità lui comincerà subito a ricamarci su delle storie: per farsi una storia con la proprietaria di quel visino grazioso, o forse solo per andare a casa a farsi una sega (più o meno mentale) sempre su quel visino…
Tutti abbiamo bisogno di belle forme sulle quali annodare delle trame istoriate, dei legami da favola. Ci sono tante patologie psichiche che consistono in una fuga dalla realtà da parte di soggetti eccessivamente delusi da tale realtà. Ebbene sì: istoriare può diventare patologico; e questo la dice lunga sulla necessità di illustrare la realtà con illustrazioni da sogno…
Però io, desistente attempato e quindi disincantato, non trovo ormai più nella mia mente (dovrei forse dire: nella mia psiche?) delle figure con le quali illustrare agli altri la mia esistenza, con le quali illustrare a me stesso la mia vita. L’incanto non mi riesce più. Le illustrazioni danno lustro alle cose, le truccano, come si trucca una donna quando vuole piacere, e la Natura, se donna è – Madre certo non lo è – sembra truccarsi solo allo sguardo di certi occhi, occhi di persone giovani… perché giovinezza è anche guardare d’inverno un albero gelato dai rami spogli e vedere nella neve che lo ricopre una cipria capace di truccarlo: il trucco consiste infatti nel vedere le cose non come sono loro ma come siamo noi, come vogliamo vederle noi. Le cose, in sé, non sono.
È tempo di smetterla, con questi piagnistei desistenziali? Meglio piangersi addosso che piangere addosso agli altri, no? E poi, abbiamo così tanti motivi per ridere? No, non penso al covid – quello passerà, prima o poi –: penso al tempo, al tempo istoriato dalle festività, agli anniversari, alle ricorrenze, ai compleanni, alle celebrazioni di qualsiasi tipo. Ma che ne sa, il tempo, di tutti questi paramenti che gli umani gli mettono addosso per sentirsi meno nudi? Paramenti sacri, paramenti profani… ce n’è per tutti i gusti. C’è chi deve per forza credere che solo andando a Messa la notte di Natale può rivivere realmente la nascita del suo Salvatore (Salvatore di cosa?); c’è chi deve per forza credere che solo andando al Veglione la notte di San Silvestro potrà vivere realmente un futuro meno brutto del passato.
Se fossi Gianni Rodari scriverei una storia sul Tempo: che passa, passa ricoperto da un ammasso sempre più pesante di paramenti più o meno sacri con i quali gli umani cercano di coprire la sua nuda e cruda realtà. Ecclesiaste 3,1-9:
1Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.
2C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato.
3Un tempo per uccidere e un tempo per curare,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
4Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per fare lutto e un tempo per danzare.
5Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
6Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per conservare e un tempo per buttar via.
7Un tempo per strappare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
8Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
9Che guadagno ha chi si dà da fare con fatica?
Un libro della Bibbia non può fermarsi qui: la speranza e l’ottimismo sono il tratto più eclatante della storia del popolo di Dio, quella storia della salvezza con la quale gli umani hanno istoriato il tempo spesso nichilista della laicità; e infatti l’Ecclesiaste continua dicendo:
10Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino. 11Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine. 12Ho capito che per essi non c’è nulla di meglio che godere e procurarsi felicità durante la loro vita; 13e che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro, anche questo è dono di Dio. 14Riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché lo si tema. 15Quello che accade, già è stato; quello che sarà, già è avvenuto. Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso.
Ce ne vuole di cocciutaggine religiosa, per credere a un Dio che «ha fatto bella ogni cosa a suo tempo». Cosa vuol dire: bella a suo tempo? Una cosa o è bella adesso o chissenefrega! E ripenso ancora ai visini belli dei miei amori passati: mai e poi mai li avrei baciati ed adorati se non fossero stati belli al momento, al presente, subito, non a suo tempo. Si pensi al cosiddetto “colpo di fulmine”, attrazione fatalmente immediata che non tollera né passato né futuro: Dio ha fatto bella questa “figa” per me hic et nunc, non a suo tempo. E non mi interessa se questa “figa” era stata da tempo immemore preparata per me dalla misteriosa e imperscrutabile provvidenza divina: l’Eterno vuole eternità, ma la bellezza non è eterna. L’Eterno vuole l’eternità, ma il Tempo vuole il presente. Il tempo del mio godimento è e dev’essere sempre adesso, ora, al momento, non a suo tempo.
La morale sessuale è la morale dell’eiaculazione ritardata. Mai adesso: sempre a suo tempo; e così, aspettando sempre il tempo giusto, finisci col non “venire” mai; coito interrotto, ab aeterno. Carpe diem. Vero, verissimo. L’attimo è un attimo: o lo cogli o lo perdi. Troppe volte facciamo l’amore con i nostri ricordi… perché non sappiamo farlo con il nostro presente. Ma è comprensibile, dacché il presente scade, come si dice dell’organico: oggi, per esempio, il mio latte scade, un litro di latte fresco ed intero che scade a capodanno! Ironia della sorte. Ma che me ne faccio della lunga conservazione? Della vita eterna? Certe volte, lo confesso, mi bevo un bicchiere di latte scaduto per liberarmi un po’ le viscere: una buona diarrea fa pulizia nell’intestino (che schifo, vero?). Panta rei, anche la cacca.
C’è un tempo per cagare e un tempo per mandare a cagare. Ma non vorrei diventare volgare. Se «tempo» è ciò ‘in cui’ tutto ciò che esiste si trasforma nella mutazione ontologica dell’essere, su questo possiamo concordare, lasciando però aperta la domanda relativa a quello stato in luogo: «in cui». Sarà corretto dire che tutto muta ‘nel’ tempo? Qualcuno dice che tutto cambia ‘col’ tempo! Forse il tempo è soltanto la coscienza del nostro mutare, forse, senza la nostra coscienza, il tempo non potrebbe nemmeno dirsi esistente, come tutto, del resto: come tutto il resto.
Ho cominciato a non sopportare più le festività quando ho capito che esse non sono altro che delle storie con le quali gli umani istoriano il tempo. In italiano, quando si dice che certe cose sono solo…. delle storie, si dice che esse sono palle; e quando si dice ad uno: hai solo delle storie, si dice che costui ha del tempo da perdere, che spara cazzate. Curiosamente invece, quando si tratta di festività, gli umani la pensano diversamente, sulle storie: per i credenti ogni giorno del calendario è dedicato a un santo o a una santa, per i non credenti molti giorni del calendario sono dedicati a una festa, come capodanno. La Chiesa ci ha messo lo zampino: capodanno non è solo la festa profana del primo giorno dell’anno ma è anche la festa sacra di Maria Santissima Madre di Dio. Quanto più una festa è importante in senso profano, tanto più la Chiesa ci mette lo zampino in senso sacro.
I calendari sono insopportabili, con tutti quei nomi di santi che nessuno ha mai conosciuto! Ogni non credente dovrebbe farsi fare da qualche tipografia un calendario personalizzato nel quale ad ogni giorno compare il nome di qualche persona che ha contato molto per lui: questo sì che sarebbe un calendario significativo, un calendario che ha senso. Che ne so? Per esempio, oggi, invece della Madre di Dio, nel mio calendario personale dedico il primo dell’anno a mia madre; ché, se anche io non sono un dio, sono almeno figlio di mia madre, no? E se qualcuno odia sua madre al punto da volerla estromettere dal proprio calendario, be’, allora costui dedichi il primo dell’anno al giorno in cui ha sverginato per la prima volta una donna! Dico per dire… a capodanno ci si sveglia spesso arrapati.
Le storie che uno si fa con le varie donnine della propria vita sono i ricordi più efficaci contro la mostruosità della cosa in sé. Tutto ciò che non è più «per sé» diventa oscenamente «in sé». È ancora ‘per me’, quella fighetta che quarant’anni fa aveva abbellito la mia adolescenza? No, ella è solo più per la mia memoria: ella è ‘in sé’. Ed io, sono ancora ‘in me’, quando la ricordo con nostalgia? Un uomo è ancora ‘in sé’, quando si perde nei meandri dei propri ricordi? Il mondo ha bisogno di uomini che siano in sé: figure strumentali capaci di far fare bella figura all’istituzione per la quale lavorano, scuola o azienda che sia. Il nostro tempo è quello che esalta l’uomo quanto più egli è in sé. Nemmeno la Befana, o Epifania che dir si voglia, mette più i suoi doni in una calza di nylon, collant, autoreggente o giarrettiera reggicalze…
Sembra incredibile che una classe di polimeri sintetici, i poliammidi, abbia potuto dare delle fibre tessili capaci di simbolizzare i benefici del Velo di Maya! La realtà, la cosa in sé, va velata: nessuno può vederla e restare vivo. Le festività sono il velo del tempo, come il velo che si stende pietosamente sul volto di un cadavere per non lasciarne trapelare l’oscenità. Osceno è etimologicamente ciò che non si deve vedere, ciò che non deve essere messo in scena, e le feste sono l’unica possibilità per poter inscenare l’oscenità del tempo. È cadaverico, il tempo: è immortale perché è già morto.
Comincia a fare freddino, su questo balcone. Come vorrei che il Tempo continuasse ancora a truccarsi per me, come faceva un tempo, quando si faceva bello anche quando era brutto tempo. Mi spiace che il sostantivo «tempo» sia maschile: è imbarazzante desiderare che il tempo si faccia ancora bello per me… ma probabilmente il tempo, essendo senza tempo, è anche senza sesso: non è né maschio né femmina. Sono solo i cristiani, nemici giurati del tempo, che sostengono la fine dei tempi, ma perché non sopportano questa vita, com’è noto. Nemmeno io sopporto questa vita, però almeno non ne vado istoriando un’altra futura al di là che renda più sopportabile la presente o passata al di qua.
Istoriare il tempo con festività più o meno sacre è feticismo a tutti gli effetti: adorare qualcosa per sé al di là di ciò che essa è in sé; adorare il velo al di qua ad onta e a dispetto di ciò che esso vela al di là, al di là di esso, al di là del velo. Una cosa è desiderabile specialmente quando non c’è ancora, e, in modo diverso, anche quando non c’è più: il desiderio di ciò che non c’è ancora o quello di ciò che non c’è più è la forma libidinosa del piacere psichico, come desiderio del futuro appetibile o nostalgia del passato appetito. Come può darsi appetito del presente? Il presente, dal punto di vista del desiderio, è instabilmente e perennemente oscillante fra i due poli del «non ancora» e del «non più»; e, se rim-pianto è desiderio di un presente passato, allora presente può veramente definirsi ‘pianto’: ogni futuro rammemorante è il com-pianto di tale presente passato.
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