PARMENIDE IL NICHILISTA
Possiamo dire che Parmenide sia stato un formidabile teologo. La sua riflessione sull’Essere ha rappresentato il vertice assoluto dell’argomentazione non contraddittoria e la negazione del non-essere ne ha confermato la Potenza: se l’Essere è, come può non-Essere? Ovvero, dato che l’Essere è, come può essere (il) non-essere? Quale azione compirebbe il non-Essere? Se insistesse nel suo non-essere sarebbe pur sempre un ente-che-insiste, un qualche cosa che compirebbe un’azione, foss’anche solamente quella di non-esistere. Per cui il non-essere sarebbe, contravvenendo così al principio espresso nel ΠΕΡΊ ΦΎΣΕΩΣ (Perí Fúseos, Della Natura) secondo il quale l’Essere è non potendo non essere. Da qui le conseguenze inscritte nella “Ben rotonda verità”: l’Essere è Uno, Indivisibile (quindi Unico), Immutabile, Immobile ed Eterno. Parmenide è il grande assertore della Necessità dell’Essere.
Consapevole però delle strettoie entro le quali si stava incuneando, i frammenti del suo poema filosofico ci lasciano con una contraddizione, anch’essa iscritta nel cuore della non-contraddizione: può bastare l’Essere a se stesso? E cioè, come è possibile il monologo? Cifra estrema, oltre la quale regna il silenzio dell’unio mystica, il mono-logo si presta all’identificazione con il principio metafisico-teologico dell’Essere-che-è. A rigore, si dovrebbe rispondere riportandone l’impossibilità: se fosse anche solo possibile allora potrebbe non essere attuato (se una cosa è possibile non è detto che sia, effettivamente), sfociando in molteplici dialoghi o silenzi profondissimi. Alla questione se sia possibile il monologo l’unica soluzione (im)possibile sarebbe allora che non si possa dare un non-monologo così come non si può dare il non-essere: l’impossibilità della possibilità del monologo è la sua Necessità (ἈΝΆΓKΗ, Ananche). Ma il quesito resta e la Necessità del Monologo non esaurisce la spinta eversiva: “Dio non ha forse inventato l’uomo […] perché Egli possa sentirlo raccontare storie?”, provoca George Steiner citando un motto ebraico.
Un Dio non sopporterebbe troppo a lungo (cosa poi vorrà intendere tale affermazione se rivolta a Dio?) la sua perfetta circolarità inscrivente tutto; anch’Egli necessiterebbe di uno svago, di una distrazione: una negazione. L’uomo è la negazione di Dio, il non-essere che è e che Gli offre l’occasione di scambiare quattro chiacchiere, sentendosi narrare, siccome il Re delle Mille e una Notte, la favolosità di un mondo brulicante e forse in fondo in fondo incomprensibile per il Creatore stesso (magistrali a riguardo sono i dialoghi surreali tra il buon Homer Simpson e il Dio giallo dell’universo greoninghiano). Ma l’impossibilità del monologo, ovverosia come abbiamo visto prima la sua necessità, esclude senza possibilità di appello la dialogicità, dunque la negazione.
Il monologo-Dio-Essere nega la negazione e con essa il dialogo-Dio-non-Essere: forse era questo che intendeva Heidegger nei suoi energici assalti all’onto-teologia. Come che sia, il teologo Parmenide ha espunto, ponendo in un esterno semplicemente impensabile, le crepe e i dislivelli, i disaccordi e gli attriti. Ma ciò che è impensabile lo è perché necessariamente non-esistente, non esistendo l’oltre-rotondità della Verità: Essere e Pensiero sono l’isonomia che regola il cosmo e che rende il cosmo cosmo. Dalla caotica della negazione alla cosmetica dell’affermazione.
Già da queste abbozzate schermaglie si può intravedere la grande operazione alla base del teologico di stampo parmenideo: annichilimento della negazione, del non- il cui posto riservato è la conoscenza iniziale e puerile dei non iniziati, di quegli umani che convintamente e pervicacemente si abbandonano ad un antropologico secondo l’opinione (κατά δοξάν), ignari della profondità della Verità della παραδόξια, del paradosso. La paradossalità di questa paradossia parmenidea è la ritorsione del suo svolgersi: il paradosso è la sostanziale impossibilità che le cose siano e non siano al medesimo valore assiologico. Ma l’impossibile è il necessario per cui è necessariamente impossibile che le cose siano e non siano; pertanto, risulta necessitata l’esclusione di uno dei due corni della congiunzione. E Parmenide esclude il non-essere, lasciandolo in pasto all’opinione, che notoriamente al filosofo cale ben poco.
La paradossalità del paradosso parmenideo è che il paradosso perde del tutto la sua intrinseca eccezionalità e dunque dinamicità: in essa tre relazioni sono ingioco, ossia i due poli del paradosso e la relazione tra i poli. Negando in partenza il non- afferma l’unico polo non negante (paradossalità al quadrato: l’Essere-è nega l’Essere-non-è!), che l’Essere è. Affermare così l’Essere, negando tutto fuorché l’Essere, è la più grande professione di nichilismo che possa essere formulata. Parmenide il teologo fu anche il primo nichilista.
E questo perché, paradossalmente (in senso etimologico), il nichilismo non si invoca negando l’Essere, bensì negando il Nulla, il diastema, il dislivello. Il movimento. L’Assoluto eleate è nichilistico perché è ovunque Essere, riducendo ad esso anche ciò che non-è: nessun ritmo in questa coltre di continuità. “L’assoluto filosofico non risiede in alcun luogo” di Merleau-Ponty è oltre il nichilismo parmenideo che vede l’Essere ovunque.
Tuttavia è bene sottolineare due forme di nichilismo, complementariamente antipodiche.
Da una parte, assume l’aspetto del saturizzatore, che riempie e sutura ogni spazio. È la grande affermazione che impedisce l’eccedenza dello scarto e che trova aproblematico l’eliminazione del Totalmente Altro, non essendovi altro che Essere. Incarna l’Univoco positivo che non ammette negazione e che riduce il Tutto al sistemico oscillamento immobile di un presente che fa a meno del passato e del futuro. Diretta conseguenze di questa sospensione temporale, lo sfaldamento della corporeità del corpo che con la sua riottosità antropo-titanica si dis-pone di traverso, ponendosi in sec(c)ante antitesi al teologico dispiegamento dell’Unico positivo. Troppo Essere, ovvero distopia teologica. Negazione del Nulla: nichilismo troppo-pieno.
Di contro, il sacrosanto pregiudizio umano tutto umano si è fatto pregiudizievole: riconoscere nel pensiero forte dell’Essere una minaccia di violenza totalitaria, con la conseguente de-ontologizzazione della metafisica. Ribellione di un umano troppo umano ad un teologico troppo teologico avverso ad un Essere troppo poco non-essere. E di qui la disseminazione, la demonizzazione della logica, il procedere a zig-zag, l’antimetodicità elevata a criterio scientifico di prim’ordine. Dinamismo-dinamite che fa esplodere l’Univocità nella Plurivocità espansa. Troppo non-Essere, ovvero u-topica oclocratica. Negazione dell’Essere: nichilismo troppo-vuoto.
Parmenide è stato il Padre della prima tradizione; la seconda, invece, ha visto ampia diffusione nel corso del Novecento, incarnandosi in quel figlio unigenito che il Word Wide Web è. Ma sia l’una che l’altra continuano a porre interrogativi che sarebbe un grave errore dare per risolti. La sfida del Nichilismo, quella lanciata dal Nichilismo, è oggi la sfida al Nichilismo, nelle sue diramazioni troppo-piene e troppo-vuote. Per questo è fondativo del discorso filosofico quanto affermato da Gaston Bachelard e citato da Merleau-Ponty nel suo Elogio della filosofia:
Se ci viene rifiutata l’intuizione del vuoto […], noi abbiamo il diritto di rifiutare l’intuizione del pieno… È come dire che attraverso diverse trasposizioni noi ritroviamo, dispiegata nel tempo, la dialettica fondamentale tra l’essere e il nulla (p. 28)
E tutto ciò a partire dal pensiero agli albori della filosofia, la grande teologia di Parmenide il nichilista.
Il motto ebraico riportato da George Steiner è citato dal suo Vere presenze, tradotto da Claude Béguin, Garzanti, Milano 2019, nuova edizione.
La citazione di Merleau-Ponty è tratta dall’edizione italiana di Elogio della filosofia, curata da Carlo Sini, SE, Milano 2008.
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@ILLUS. by FRANCENSTEIN, 2020
L’umano alza la testa cosicchè Dio possa spiccargliela!
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