KARL JASPERS: CREAZIONE E COLPA, MEMORIA E RESPONSABILITÀ. IL MITO (PARTE IV)

Alle nozze di Peleo e Teti, matrimonio da cui sarebbe nato il grande Achille, la dea Eris, la discordia, la vendetta per le offese subite (probabilmente perché non invitata al matrimonio), fa la sua comparsa lasciando un dono venefico, la mela d’oro, che sarebbe spettata alla più bella. Era, Afrodite e Atena entrarono subito in competizione per stabilire a chi toccasse; la loro bellezza era di pari valore: a chi sarebbe spettata allora? Il giovane Paride dovette scegliere e optò per Afrodite, la quale gli promise l’amore della più bella tra le mortali, Elena. Ciò fu l’antefatto della Guerra di Troia[1].
Questo è per Jaspers la cifra del politeismo; la scelta nella devozione ad una particolare divinità necessariamente ne offende un’altra, la quale punirà questo sgarro subito, in quanto l’uomo si è reso colpevole. Certamente si può anche non scegliere, evitare completamente di porsi sul piano di una possibile realizzazione, ma ciò comporta ugualmente una colpa. Ed è ancor più grave per quanto concerne le problematiche etiche; se non ci si attiva concretamente a favore o contro una posizione, tanto moralmente lodevole, quanto riprovevole, si corre il rischio del «piacere di avvicinarsi a tutti gli dei e al diavolo, pur senza servire nessuno di essi» (La fede filosofica di fronte alla rivelazione, p. 423.
Jaspers aveva già affrontato queste dinamiche nel suo primo corso universitario postbellico ad Heildelberg, dedicato al tema della colpa: parlando della colpa morale, della colpa morale dei tedeschi per aver permesso l’ascesa e la formazione di un Reich criminale, si scaglia contro coloro che, protetti nell’autoillusione dell’inimputabilità della colpa perché meri esecutori, affermavano: «si trattava di un ordine!». Si accettava tutto, tanto il bene quanto il male, in una cieca obbedienza, privi di coscienza. Così Jaspers:
[m]a questa parola serviva anche a scaricare la coscienza, dato che con un’alzata di spalle si faceva passare come inevitabile tutto quanto c’era di stupido e di malvagio. Una condotta di tal genere, pienamente colpevole dal punto di vista morale, si trasformò in una tendenza a ubbidire ciecamente, tendenza del tutto impulsiva, per cui ciascuno si sentiva in pace con la propria coscienza, mentre di fatto aveva abolito ogni coscienza (La questione della colpa, p. 66).
In poche parole, la cifra del peccato originale ci riporta alla questione della scelta (Wahl) e della decisione (Entschiedenheit; che è possibile anche tradurre significativamente con “risolutezza”, “fermezza”). Ma la scelta non è una selezione, a impatto zero, per così dire; la scelta è rischio, pericolosità, disposizione e dedizione al fallimento; è dare la mela ad una dea, consapevole del fatto che ciò ci renderà colpevoli e meritevoli di punizione per aver offeso le altre divinità. Ma l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, si dice; la scelta, pertanto, non può riguardare esclusivamente solo l’aspetto pratico. Richiede un atteggiamento etico, che involve anche la dimensione tipicamente intellettiva (non nell’accezione tecnica presente in Jaspers): l’uomo può conoscere. Attraverso la conoscenza l’uomo può andare oltre la propria finitezza, realizzare un mondo di realizzazioni senza fine; questa è la grandezza dell’uomo, questa la sua ingenita nobilitas. Ma per poter raggiungere questo livello di autoconsapevolezza, necessariamente deve entrare nel mondo della finitezza, rappresentata dalla caduta.
Se si mettono a confronto le condizioni pre e postlapsarie si può notare una cosa: l’uomo incomincia a compiere azioni solo nel momento della tentazione e della successiva trasgressione. La caduta, allora, ben prima della punizione, consiste nel fatto stesso dell’aver ceduto al serpente tentatore. Ma solo così l’uomo riconosce di essere nudo; solo così l’uomo inizia a intuire la propria condizione, oramai divenuta finita, e a porsi il problema di come risolverla: «intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (Gen. III, 7); soluzione solo apparentemente prometeica. Non si tratta di un ritrovato tecnico, di un dispositivo protettivo della costituzione dell’esserci; ciò coinvolge l’essenza stessa dell’uomo. Il poter pensare stesso e il conoscere sono già in sé disobbedienza e ribellione. E ciò significa:
l’essenza dell’uomo, cioè il poter pensare, acquistare conoscenze, è già in origine disobbedienza, ribellione. Ha qui la sua origine proprio ciò con cui l’uomo si aiuta nel mondo, senza di che egli non può esserci e che costituisce la sua grandezza e la sua forza (La fede filosofica di fronte alla rivelazione, p. 488).
Ora, in che cosa consiste questa grandezza dell’uomo? Nei risultati raggiunti? Nella ‘creazione’ tecnica’? Oppure nella ricerca di nuove soluzioni sempre destinate al fallimento? È stato un bene per l’uomo la caduta dall’Eden onde realizzare appieno la sua essenza creaturale, benché ciò comporti fatica, dolore e sofferenza, infine la morte?
La grandezza dell’uomo risiede in ciò che egli diviene nella esperienza delle situazioni-limite. Non è possibile in modo verace amare la nobiltà di questa grandezza, senza mirare alle condizioni di essa(ivi, p. 425).
Possiamo così affermare, a mo’ di conclusione, con Jaspers che il peccato originale come cifra ci dice che
l’uomo non ha in origine commesso un delitto comune, ma quella disobbedienza con la quale egli ha sfruttato la sua occasione favorevole, posta in lui dalla somiglianza di Dio. Egli può ora conoscere, ma a costo di essere mortale. Gli è data la terra per la sua imprevedibile attività, ma a costo di esservi cacciato nelle fatiche che non cessano di consumarlo. Quest’ambiguità dell’essere umano, per cui la sua disobbediente volontà di conoscenza è condizione della sua grandezza, può farci interpretare questa cifra in un senso o nell’altro, cioè come coscienza della sventura senza consolazione nella brama di ciò che è perduto, oppure come l’entusiasmo che è dato dai grandi compiti dell’uomo (ivi, p. 626).
Il problema che si presenta adesso è questo: si può fare a meno della colpa? E ancora più precisamente, può l’uomo fare a meno, rinunciare definitivamente al problema della colpa come colpevolezza? Il problema della colpa riguarda l’uomo nella sua essenza; affermare la colpa come verità naturale, come necessità naturale, significa svilire la libertà umana, ritenere il pensiero e la conoscenza come semplici fenomeni naturali, molto più complessi certamente che negli animali, ma sostanzialmente affini. In poche parole, comporta, per Jaspers, un misconoscimento del salto originario che distingue l’uomo dagli animali. Lo stesso discorso, d’altro canto, deve essere rivolto anche a coloro che ritengono o che l’uomo abbia già in sé gli strumenti utili per poter cancellare la colpa grazie al proprio impegno etico o che l’uomo necessiti di un intervento dall’alto, divino, ovverosia la grazia, che possa redimere l’uomo dalla colpa commessa o ereditata dai propri progenitori. A queste due posizioni contrastanti, ma entrambe pretendenti adesione data la loro verità, può rispondere la fede filosofica…
[continua…]
[1] Per una spiegazione più estesa e per i riferimenti e implicazioni di questo mito, cfr., J.-P., Vernant, L’universo, gli dei, gli uomini, Einaudi, Torino 20144, pp. 73-91.
@ILLUS. by PATRICIA MCBEAL, 2020