MEONTOLOGIA DELLA LIBERTÀ (quarta lezione) IV,5

…continua da Meontolgia della libertà IV, 4 (qui)
Come illibertà – diciamo parafrasando Pareyson – l’Uomo è l’essere che non ha voluto essere, cioè il male non scelto, è la mancata scelta del bene neutrale del Nonessere. Non c’è dialettica che possa giustificare il prezzo di essere, il prezzo in termini di sofferenza e dolore di essere esistenti. «La dialettica temporale come lotta fra bene e male è quella che c’è nella storia temporale umana nella quale positivo e negativo, bene e male, sono sempre in lotta, sempre in tensione, sempre insieme, sempre con un reciproco scambio, con una mutua confusione, con un mutuo travestimento». Matteo 13,24-30:
«Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponételo nel mio granaio”».
Luigi Pareyson, servo obbediente della Teologia cattocristiana, ma fino a un certo punto, situa nel secondo tempo della storia universale, dopo il primo tempo protologico, il tempo in cui Bene e Male convivono insieme in attesa del Giudizio Universale; però, alla fine dei tempi, il Bene dovrebbe essere eternamente circoscritto in Paradiso e il Male eternamente circoscritto all’Inferno. Invece il filosofo di Piasco sceglie un finale diverso da quello dogmatizzato catechisticamente dalla Chiesa Cattolica: egli prevede un’Apocatastasi da intendersi come ritorno alla condizione protologica nella quale il Bene aveva la meglio sul Male; peccato che un finale di questo tipo non lasci spazio all’Inferno. Oppure, come vuole Hans Urs von Baltahasar (1905-1988), l’inferno, se esiste, è vuoto. Pareyson dice che «il superamento completo del male richiede (…) la scomparsa del male separato, con tutto quel che se ne dice, cioè, volgarmente detto, la scomparsa dell’inferno»; e questa è l’apocatastasi: la scomparsa del Male «è richiesta dalla redenzione stessa, perché altrimenti non verrebbe riconosciuta la potenza della sofferenza della divinità». In altre parole, se alla fine dei tempi il Male restasse, seppur circoscritto nell’Inferno, la vittoria del Bene, il trionfo di Dio non potrebbe essere considerato veramente totale. Megalomania del Bene.
Lo schema della dialettica fra Bene e Male è cattolicamente la seguente:
DIALETTICA PROTOLOGICA
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DIALETTICA ESISTENZIALE
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DIALETTICA ESCATOLOGICA
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Il Bene vince il Male
nell’Essere divino. |
Bene e Male insieme
nell’esistenza umana. |
Bene in Paradiso, Male all’Inferno.
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Come si può vedere, la commistione fra Bene e Male è prevista solo nell’esistenza umana, la nostra; prima, protologicamente il Bene annulla il Male, dopo, escatologicamente il Bene convive accanto al Male ma separato da esso.
«C’è la dialettica nel cuore della realtà: è la dialettica che dà un senso alla positività. Non c’è positività senza negatività, ci vuole l’inseparabilità dei due termini; la positività non ha senso se non è avvolta da questa duplicità e da questa ambiguità. Hegel ha ragione: il cuore della realtà è dialettico, il negativo è superato, il compimento è la vittoria del positivo…». Lieto fine. Applauso. E vissero felici e contenti? A sentire il Catechismo Maggiore promulgato da San Pio X nel 1905 il lieto fine non è affatto scontato:
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D. Che cosa c’insegna l’ultimo articolo: La vita eterna?R. L’ultimo articolo del Credo c’insegna che dopo la vita presente vi è un’altra vita o eternamente beata per gli eletti in paradiso, o eternamente infelice pei dannati all’inferno.
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D. Possiamo noi comprendere la felicità del paradiso?R. No, noi non possiamo comprendere la felicità del paradiso, perché supera le cognizioni della nostra mente limitata, e perché i beni del cielo non possono paragonarsi ai beni di questo mondo.
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D. In che consiste la felicità degli eletti?R. La felicità degli eletti consiste nel vedere, amare e possedere per sempre Dio, fonte di ogni bene.
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D. In che consiste la infelicità dei dannati?R. L’infelicità dei dannati consiste nell’essere sempre privi della vista di Dio e puniti da eterni tormenti nell’Inferno.
Con buona pace del professor Luigi Pareyson, la Chiesa Cattolica continua ad insegnare queste scomode verità di fede, a dispetto di qualunque filosofia recalcitrante. Addio apocatastasi! Invece di considerare l’ontalgia esistenziale umana per quello che è, senza ricorrere a sotterfugi ontoteologici, il professor Pareyson si mette a discutere con Hegel a distanza: Hegel «non fa distinzione tra processo logico-eterno e processo storico-temporale. La conseguenza è che la vittoria escatologica, che dovrebbe essere oltre il tempo, è invece nel tempo: è storica». I comuni mortali, quelli che non hanno la capacità di pensare più di tanto, posti di fronte a queste dispute fra addetti ai lavori non capiscono nulla. Cosa gliene frega, ai comuni mortali, se la dialettica hegeliana non pone la vittoria del Bene fuori del tempo, o cose del genere?
L’esaltazione cattocristiana del dolore pervade l’esaltazione ontoteologica di Pareyson: «Potenza del dolore, il quale è più forte della colpa, è l’unica forza superiore a quella del male»; «cioè il dolore vince il peccato, la sofferenza vince il male». «La sofferenza dunque ha un valore doppiamente rivelativo: essa è il destino dell’uomo ed essa apre il segreto dell’essere». Il vostro Profeta, o desistenti, pensa che la maggior parte degli umani non riuscirebbe a sopportare il dolore, se non potesse dare al dolore un qualche valore, un qualche significato: la morale cristiana rende il dolore dotato di senso. La banalizzazione del dolore renderebbe quella del male un’esperienza assurda; il male è talmente gravoso, pesante, che non lo si può approcciare a cuor leggero: o gli si dà il peso che merita, oppure esso potrebbe risultare insopportabile. Dire a uno che sta soffrendo che la sua sofferenza non ha alcun senso renderebbe questa sofferenza ancor più dolorosa; uno spera sempre di poter pensare che il sacrificio che sta sopportando serve a qualcosa, alla fine dei conti, alla fine dei tempi. Non si fa qualcosa per niente: ci vuole Qualcuno a cui dover rendere conto, a cui poter rendere conto. In questi giorni si resta a casa per evitare il contagio ed arrestare la pandemia, per esempio: c’è un Governo a cui rendere conto.
Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ieri, 6 aprile 2020, ha cercato di consolare gli italiani alla fine del Telegiornale serale: dovrete restare a casa anche a Pasqua – ha detto –, ma Pasqua significa ‘passaggio’… anch’io sono credente… Insomma, il Presidente del Consiglio ha cercato di valorizzare il sacrificio degli italiani, ha cercato di dare valore alla sofferenza psichica causata dal restare a casa: il male deve sempre poter essere interpretato come un mezzo per raggiungere il bene, se no esso può risultare veramente intollerabile. La banalizzazione del male renderebbe l’esperienza del male insoffribile e dunque inammissibile; c’è però una banalità del male – l’abbiamo detto –, che svalorizza il male stesso proprio per potersene difendere. Quindi, se da una parte il male dev’essere valorizzato per poterlo PATIRE, dall’altra esso dev’essere svalorizzato per poterlo FARE. Ancora e sempre le due categorie aristoteliche di actio e passio.
- Massimizzare il valóre del male per poterlo patire.
- Minimizzare il disvalóre del male per poterlo agire.
Questo nostro mondo è un campo di concentramento in cui il male si concentra, in cui il male è concentrato: Konzentrationslager. In questi giorni si dice che la lotta contro la pandemia è una vera e propria guerra, ma il male di questo virus non è assolutamente paragonabile al male del virus riproduttivo. Il male può essere valutato come valore positivo, VALORE, oppure svalutato come valore negativo, DISVALORE, a seconda di ciò che fa comodo. Per capire il pensiero desistenziale è necessario capirne la scala di valori. Friedrich Nietzsche, fautore della ‘trasvalutazione di tutti i valori’ – Umwertung aller Werte – fa dire al suo Profeta: «Io, Zarathustra, l’avvocato della vita, l’avvocato del dolore, l’avvocato del circolo – io chiamo te, il più abissale dei miei pensieri!»: l’eterno ritorno. Il Profeta di Nietzsche svaluta il cielo e sopravvaluta la terra:
«Fratelli miei, io vi consacro e vi indirizzo a una nobiltà nuova: io voglio che diventiate genitori, gli allevatori, i seminatori dell’avvenire, –
– invero, non a una nobiltà che potreste comprare, come i mercanti, con oro di mercanti: giacché poco valore ha tutto quanto ha un prezzo.
D’ora in poi il vostro onore consista non nella vostra origine, bensì nella vostra meta! Nella vostra volontà, nel vostro piede che vuole andare anche al di là e al di sopra di voi stessi – in ciò consista il vostro nuovo onore!»
«La terra dei vostri figli voi dovete amare: sia questo amore la vostra nobiltà nuova, – la terra non ancora scoperta, nelle lontananze remote del mare! Questa terra io ordino di cercare e cercare, alle vostre vele!
Nei vostri figli dovere riparare di essere figli dei vostri padri: così dovete redimere tutto il passato! Questa tavola nuova io pongo sopra di voi!».
L’uomo che supera le vecchie tavole della legge, l’uomo che si lancia oltre l’autorità stantia dei suoi padri, al di là degli antichi comandamenti, costui, per Zarathustra è Superuomo, Oltreuomo. Di antiche tavole e nuove. In Degli apostati Zarathustra irride il Dio cattocristiano:
«Ma ha davvero dei figli? Nessuno può dimostrarlo, se lui stesso non lo dimostra! Da gran tempo avrei voluto che una buona volta lo dimostrasse con buone ragioni».
«Dimostrare? Come se costui avesse mai dimostrato qualcosa! La dimostrazione gli riesce difficile; e ci tiene molto che gli si creda».
«Certo! Certo! La fede lo rende beato, la fede in lui. E questo è il modo dei vecchi! E così va anche a noi!». –
Il dogmatismo immobile sulle sue posizioni, infrangibile, inamovibile, manda in bestia lo Zarathustra di Nietzsche, che spezza le tavole della legge. Pensando alla fede pareysoniana nella caduta dell’uomo come causa dell’esistenza terrena, cioè dei mali e della morte, viene alla mente come parlò Zarathustra: ««Io sono Zarathustra, il senza Dio: io riesco a cuocere nella mia pentola qualunque casualità. E solo quando sia cotta a puntino, io le do il benvenuto, in quanto mia vivanda». Una volta liberi dalla causalità, la casualità ci permette di non credere a una causa del dolore umano: il CASO libera gli effetti dalla loro CAUSA liberandoci dal giogo dottrinale dell’espiazione, della redenzione dal peccato, e la salvezza diventa una categoria teologica superata. In un ‘regime di causalità’ qualunque effetto, il Male in primis, deve riconoscere la propria causa e sottomettersi umilmente ad essa; ma nella ‘anarchia della casualità’ nessuna causa può porsi come inizio indiscutibile e principio fuori discussione. Prima che il sole ascenda: «“Per caso” – questa è la più antica nobiltà del mondo, che io ho restituito a tutte le cose, io le ho redente dall’asservimento allo scopo». Così parlò Zarathustra. Zarathustra intona per bocca di Nietzsche un entusiasta inno alla vita; questo amore sviscerato, viscerale, per la vita, porta Zarathustra ad evitare la fine ultima di essa escogitando un eterno ritorno: fine ultima e fine ultimo presuppongono una causa prima liberandosi della quale si può celebrare «l’immenso illimitato “dire sì e amen”». Della redenzione:
«Non v’è azione che possa essere annullata: come potrebbe la punizione rendere l’azione non compiuta! Questa, questa è l’eternità della punizione che di “esistenza” ha nome: che l’esistenza, a sua volta, non possa non essere eternamente se non azione e colpa!
A meno che la volontà non redima se stessa e il volere diventi non volere –»: ma, fratelli, la conoscete già, la filastrocca della demenza!
Via tutte queste filastrocche, io vi condussi quando vi insegnai: «la volontà è qualcosa che crea».
Ogni “così fu” è un frammento, un enigma, una casualità orrida – fin quando la volontà che crea non dica anche: «ma così volli che fosse!».
Questa protesta filosofica è ribellione contro al cattocristiano Padre nostro, Pater noster: Sia fatta la tua volontà, Fiat voluntas tua. L’insofferenza dello Nietzsche-Zarathustra per tutto ciò che è rigidamente prestabilito eziologicamente fa esplodere la rivolta contro la Volontà di Dio: non è la Volontà di Dio, che noi dobbiamo fare, bensì la nostra, volontà.
Il Profeta della Desistenza si spinge ben oltre la ribellione zarathustriana e la porta a compimento: quando Zarathustra dice «a meno che la volontà non redima se stessa e il volere diventi non volere» sta istigando la volontà umana a non volere più quello che vuole la Volontà divina; Dexistens va oltre, dacché dice «a meno che la volontà non redima se stessa e il volere diventi non volere affatto, non volere per nulla». Così, la Voluntas redenta da Zarathustra è a sua volta redenta dalla Noluntas di Dexistens.
Ogni Amen, ogni ‘così sia’ è un parassita della Necessità: parassita del ‘così dev’essere’, deontologia mistificante della causalità. Se Zarathustra fu «l’avvocato della vita» che c’è già, Dexistens è l’avvocato della vita che non c’è ancora. In ultima analisi, Dexistens dice che Zarathustra è un maestro che dev’essere superato, tacitato. Della vittoria su se stessi: «Non il fiume, saggissimi, è il vostro pericolo e la fine del vostro bene e male: bensì quella volontà stessa, la volontà di potenza, – l’inesausta feconda volontà della vita». «Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di potenza; e anche nella volontà di colui che serve ho trovato la volontà di essere padrone».
Dei preti si parla, in fondo, quando si tratta di coloro che «non hanno saputo amare il loro dio, se non crocifiggendo l’uomo!».
«Ma io soffro e ho sofferto con loro; per me essi sono dei prigionieri e dei segnati. Colui che essi chiamano il loro redentore li ha messi in catene: –
Nelle catene di valori falsi e di parole fallaci! Oh, se qualcuno li redimesse dal loro redentore!»
Il Parsifal wagneriano invoca Erlösung dem Erlöser, redenzione al Redentore. Il Profeta della Desistenza, Dexistens, vi ha redenti da Zarathustra così come questi aveva redento i nietzscheani da Gesù Cristo. «Volere libera: questa è la vera dottrina della volontà e della libertà», disse Zarathustra Sulle isole beate. Ma Dexistens sa che questa è ancora pur sempre «volontà di generare», «volontà creatrice». Il vostro Profeta, o desistenti, vi insegna la volontà liberatrice, che non è volontà creatrice perché non è volontà di generare. Zarathustra non ha perso il vizio di scimmiottare il Creatore: Zarathustra continua a procreare, a proclamare il trionfo della vita.
«Creare – questa è la grande redenzione dalla sofferenza, e il divenir lieve della vita. Ma perché vi sia colui che crea è necessaria molta sofferenza e molta trasformazione.
Sì, molto amaro morire dev’essere nella vostra vita, o voi che create! Solo così siete coloro che difendono e giustificano ogni cosa peritura.
Per essere il figlio di nuovo generato, colui che crea non può non voler essere anche la partoriente e non volere i dolori della partoriente.»
No! No! No! Tre volte no! Sulle isole dannate, Zarathustra vi disse questo, o miei desistenti! Su dannatissime isole! Zarathustra cercò solo di disinnescare l’ordigno paolino di Romani 8,18-25:
Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.
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