L’ESCATOLOGIA SPURIA DEL CORONAVIRUS

La situazione si aggrava di giorno in giorno. Cluster epidemici si accendono a macchia di leopardo in giro per il mondo, sempre un maggior numero di paesi si scopre vulnerabile e sotto l’attacco di un nemico invisibile che minaccia dall’esterno e che si scatena all’interno, le strutture sanitarie collassano, i medici allo stremo, i morti aumentano… La crisi che stiamo vivendo sta portando a galla tutte le nostre debolezze, sistematiche e ontologiche (in quanto esseri fragili, impotenti, destinati alla morte). Ma siamo giunti alla fine? È giunta l’apocalisse?
Sul web, come ci si sarebbe potuto immaginare, impazza il totoapocalisse: i segni del 2020 sono inequivocabili. Locuste, guerre, l’epidemia… I tempi sono giunti; il tempo si è compiuto. Ora è venuto il tempo della rottura, della fine, dell’esplosione. Stiamo entrando nel tempo finale, il tempo escatologico dell’apocalisse. Il tempo del reddere rationem, della quadratura del cerchio, dell’attimo conclusivo di questa lunghissima (ma in fondo infinitesima se vista dall’ottica del mostro geoide) avventura che siano soliti definire storia. Però qualcosa non torna. Non tornano i conti. E siamo qui a chiederci: “Quanto durerà questa emergenza?” “Per quanto tempo ancora dovremo restare chiusi nelle nostre case?” “Quando potremo tornare a uscire liberamente?”. Domande lecite. Eppure domande profondamente dissonanti rispetto alla sinfonia apocalittica che risuona in queste ore. Durata, futuro e speranza. Sono queste le tre coordinate che sorreggono il pensiero: “Siamo giunti all’attimo finale? Bene; quanto dura? Cosa accadrà dopo e cosa possiamo attenderci?”. Ecco, queste tre lecite domande sono esattamente ciò che esclude, ed è escluso, dalla logica escatologica.
Partiamo dal concetto di durata. Si dice che un ente duri nel suo atto di permanere. Logicamente, la durata implica il tempo, l’arco di tempo necessario a percorrere l’arco spaziale della durata (s/t (spazio/tempo) è la formula della velocità (a moto rettilineo uniforme)): la durata non è tanto una linea (perfettamente implicata dalla formula), ma un arco, un’attività, un’intensità (per non parlare poi del moto accelerato…). Esaurire la durata è esaurire l’intensità, la carica energetica: la fine coinciderebbe con il totale azzeramento della forza, della potenza dello slancio (vitale; l’élan vital bergsoniano come principio di creatività evolutiva). Se il momento escatologico è il momento culminante, il momento della fine come superamento e annichilimento di ogni attimo in quanto fine e affermazione della finalità cosmico-te(l)ologica (sulla scorta di una distinzione tra fine (per intenderci, scopo) e finalità sul modello avicenniano-scotista), allora sarebbbe ben vano chiederci la durata della fine. L’ἔσχατον (eschaton) annullerebbe e prosciugherebbe ogni intensità; ribaltamento non dialettico: intensità massima della fine.
Futuro è il secondo orizzonte qui in gioco. E si tratta espressamente di orizzonte, di estensione e vastità della tanto lodata vaghezza romantica. L’orizzonte condivide con l’oriente l’orientamento (orientarsi è trovare l’oriente; il kantiano orientarsi nel pensiero come trovare l’origine, la fonte del pensiero. Movimento quasi-genealogico perché sempre propositivo, di già orientato al futuro), ma se ne distacca perché lo supera: l’orizzonte si estende all’occaso. Il futuro comprende in sé la fine, che è sempre futura, l’oriente e l’occaso, il sorgere e il (il sorgere del) tramonto. Pensare al futuro è ancora pensare a questo ritorno, a questo rimbalzo; non un semplice gioco dialettico ma l’intreccio dei tempi, di cui il presente è il nodo dell’intrico e la corrente che lo percorre. Pensare ad un dopo che precede il prima (la causa finale non va mai postposta al causante come hanno mostrato, per esempio, Aristotele e Duns Scoto); ma se di attimo escatologico si tratta, nessun prima del dopo: compimento della finalità.
Resta la speranza, questa potenza dell’animo. È intrisa di futuro, si nutre di futuro. Si nutre dal futuro. Per questo è sempre passata; l’attuarsi della speranza è nel suo possedere il passato, nell’alimentarlo, rintuzzarlo, dargli passione. L’attualizzazione della speranza, di contro, il suo elidersi, l’annientamento nella realizzazione. Difatti, è la più grande virtù escatologica e come tale (in quel legame tra dialettica ed escatologia ben evidenziato da Jacob Taubes) germina in sé la sua rovina, ovvero la sua vittoria. Speranza dei popoli, il Cristo non avrebbe potuto far altro che morire: Ecce spes – ecce mors. Ma la speranza non ha domani. E qui la sua natura dialettica si ritorce contro (muore alla dialettica e si riconferma dialettica), si svincola dal futuro perché proviene dal futuro. Atto finale di un duplice movimento: da qua a là e da là a qua. E noi possiamo sperare, ma non possiamo sperare dialetticamente. Epicureamente, se c’è speranza ci siamo noi; quando viene lei (nella sua auto-distruzione) non ci saremo più noi.
Per questo tutto questo ciarlare internettiano e internettoso di apocalisse non può essere fondato. L’atto escatologico, che ci sia o meno, sarà l’atto culminante, l’azione finale che interromperà il tempo. Porci la domanda sulla durata, sul dopo, sulla ricostruzione dalle macerie della catastrofe ci fa rientrare ancora nell’ottica del tempo, di un orizzonte temporale percorribile dalla retta s/t, da una velocità costante o accelerata che sia, ma sempre nel tempo, di cui ne è la condizione. Jacob Taubes correttamente in Escatologia Occidentale ha fatto riferimento all’Allora, all’attimo del καιρός (kairós), del momento di incidenza del piano superiore al piano cosmico. Ma ha frainteso l’attimo come il momento del tra-, dell’inframmezzo (la storia stessa come il tra– escatologico), della novità. L’Allora, in quanto ἔσχατον (eschaton) dialettico che si riversa e si riconosce nell’ἀρχή (arché), perde la sua ora, la sua punta pungente: l’Allora è piuttosto l’all’Ora, il puro annullamento senza durata, futuro e speranza.
Che sia forse la presa dell’Eternità (come in parte sostenuto dallo stesso Taubes)? Non siam profeti per affermarlo; di certo possiamo riconoscere i segni di questa escatologia spuria del coronavirus…
Il libro citato di Jacob Taubes è Escatologia occidentale, Quodlibet, Macerata 2019; per leggerne la recensione clicca qui
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@IULLUS. by, FRANCENSTEIN, 2020
CRISI CORONAVIRUS
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@GRAPHICS by MAGUDA FLAZZIDE, 2020
Forse che il cambio di significato del termine apocalisse, da “fine dell’esistenza tutta” a “catastrofe di grandi proporzioni (per gli umani)”, sia definitivo?
In effetti se una fine di tutto vi è, chi potrebbe, dopo, testimoniarla, così da rendere utile la parola? Prima, non riuscirebbe a dimostrarsi legittima…
E poi tutto il filone cinematografico post-apocalittico come lo chiamiamo?
O forse ci si può accontentare di avere una parola, come tante, con più di un’accezione…
P.S. non è, poi, facile far valere il dubbio che vuole l’esistenza del tempo. E, per di più, sia pure esso considerato l’unità nominale di variazioni molteplici, queste avvengono al di là della notizia dello spazio e degli enti, i quali, per altro, tra loro (spazio-enti) sono distinti solo nominalmente, relativamente.