MEONTOLOGIA DELLA LIBERTÀ (quarta lezione) IV,2

…continua da Meontolgia della libertà IV, 1 (qui)
Il Profeta ha fatto questa lunga premessa perché crede che tutto il contenuto della quarta lezione di Pareyson su Libertà e dialettica in Ontologia della libertà possa desistenzialmente essere spiegato meglio usando tale premessa come chiave di lettura.
«L’originarietà della scelta: questo è il principio fondamentale dell’ontologia della libertà». Così s’apre la quarta lezione. Torniamo allo scenario nazista della dittatura e chiediamoci: aveva scelta, chi viveva in Germania ai tempi di Hitler? Era forse libero di contestare le libertà che il Dittatore si prendeva continuamente facendo di esse dei doveri incontestabili? Quale scelta può essere così originale da non coinvolgere nessuno se non colui che ha fatto quella scelta? Il TOTALITARISMO ONTOLOGICO è una dittatura: la DITTATURA DELL’ESSERE; questo va detto, senza peli sulla lingua, senza remore, senza paura. «In principio era la scelta», dice Pareyson, ma la scelta di chi? Una scelta fatta in prima persona e magari poi imposta ad altri? L’Essere è diventato un regime, per coloro che sono. Un Padrone, se è l’Essere, va fiero di essere e impone la scelta di essere ai suoi sudditi, ai membri del Partito degli essenti, per i quali essere è bene, essere è normale, essere è la vita.
«La libertà è autooriginazione e scelta originaria: in principio era la scelta. Dire ‘Dio esiste’ significa dire ‘è stato scelto il bene’; l’esistenza di Dio non è altro che questo: il bene è stato scelto ab aeterno, il male e il nulla sono stati vinti ab aeterno, per sempre, definitivamente». Anche il Reich, il terzo Reich, doveva essere millenario, nelle intenzioni di Hitler, poi esso finì come finì. Il Signore della Guerra aveva scelto di vincere tutti coloro che non erano ariani e toglierli di mezzo affinché la sua Libertà originaria di creare il Reich potesse realizzarsi. Per carità, il Profeta non vuole fare di ogni erba un fascio, non vuole paragonare un dittatore come Hitler al buon Dio cattocristiano; questo no, ma da sempre il Profeta, riflettendo sull’obbligo “esistenziale” che l’uomo ha di lavorare e di morire, obbligo consacrato da una maledizione illustre sita nella Sacra Scrittura (Genesi, 3), ha considerato questo nostro mondo come una specie di campo di concentramento, campo di lavoro e di morte. Nessuno si scandalizzi, ma il desistente che sta scrivendo vorrebbe condividere con il lettore due cosucce scritte dal Profeta per esprimere poeticamente la morte (Il sonetto del camino) e il lavoro (Il travaglio rende lībĕri) nel campo di concentramento dell’esistenza:
IL SONETTO DEL CAMINO
Nel mezzo di un camin la nostra vita
si trova dal momento in cui si nasce
e subito lagnosa chiede aìta
dacché fumosa brucia e non ha pace.
È un forno crematorio questa vita,
è una fornace ardente che si pasce
di condannati a morte che in salita
si trovano da quando sono in fasce.
Salita del respiro che sospira,
scalata che ti lascia senza fiato,
ascesa del respiro finché spira.
O uomo, mira, ammira e ognor rimira
la sorte riservata a chi è nato:
nel fuoco incenerir di quella pira.
Dopo l’amara considerazione sull’obbligo della morte imposta dal regime ontologico della dittatura dell’essere, il Profeta passò a riflettere poeticamente sul correlato esistenziale dell’aberrante comando posto all’ingresso di parecchi lager nazisti, uno per tutti Auschwitz: Arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Nel campo di concentramento dell’esistenza il lavoro è travaglio, il travaglio che “rende” figli, in latino i lībĕri:
Il TRAVAGLIO RENDE LĪBĔRI
Certo, sì, l’amore è cieco,
ma perché la volva è orba:
di chi ama è destin bieco,
che s’involva in ciò che ammorba.
L’uomo agogna e poi s’infogna,
prima agogna poi procrea,
mette al mondo – che vergogna! –
una vita affatto rea.
Rea di che? Di esser nata!
Ma è una colpa, la doglianza?
È una doglia, che ci è data
per finire in condoglianza.
Il travaglio rende liberi?
Lībĕri solo in latino,
lingua morta, ormai di ieri,
che oggi studia chi è cretino.
Lībĕri vuol dire ‘figli’.
Ma è leggenda da sfatare:
ché lo son come i conigli,
liberi di procreare!
Procreare rende liberi?
Certo non rende giustizia:
chi fa figli lascia in fieri
summa iniuria, non giustizia.
Fare figli è far captivi,
prigionieri della vita,
in cattività, ché ivi
la lor libertà è finita:
libertà di starne fuori,
da ‘sto campo di tormenti,
campo in cui di certo muori,
dal momento che ci entri.
Lavorare e poi morire:
questo tocca agli internati,
liberi di deperire
e perir, vituperati.
Vituperio della vita!
Siamo tutti deportati
dalla patria terra avita
e alla morte condannati;
Nostra patria è invero il nulla
da cui dicesi che Iddio,
stanco a forza di far nulla,
dell’uom trasse fuori l’Io.
È il nulla, il nulla santo,
quella patria dove ancora
non si sente nessun pianto,
nessun gemito che accora;
Mentre qui sempre un lamento
sale orribile dal campo,
come “di concentramento”,
dove niuno trova scampo.
Chi potrebbe non commuoversi, di fronte a questo parto poetico del Profeta della Desistenza? Chi potrebbe non sentire empaticamente il proprio destino intimamente legato a quello di tutti gli altri prigionieri del campo ontologico? Solo chi ha indurito il proprio cuore al punto di non provare compassione per i suoi fratelli di prigionia, solo colui per il quale qualunque Male è ormai diventato banale, una banale necessità del Lager.
Anche Pareyson nacque in questo Lager, il 4 febbraio 1918, e durante la seconda guerra mondiale fu antifascista militante nel clandestino Partito d’azione; per questa sua militanza antifascista fu persino sospeso dall’insegnamento, arrestato, detenuto per alcuni giorni e poi rilasciato. Pareyson conobbe dunque la dittatura, quella fascista, ma evidentemente questa esperienza non gli insegnò nulla: la dittatura ontologica del cattocristianismo fu da lui accettata senza battere ciglio. Hashtag d’obbligo: tutto andrà bene. Il male e il nulla sono stati vinti ab aeterno. «Si dirà: com’è possibile ciò, se noi uomini viviamo nella lotta continua e senza fine fra bene e male? Questo è il mondo in cui viviamo, e in cui siamo attori, spettatori, vittime di questa lotta, senza sapere come andrà a finire, chi avrà l’ultima parola – lotta incerta e indecisa sino all’ultimo». Non la sentite, l’aria irrespirabile del Lager, nelle parole sopraccitate? Siamo vittime di una lotta, una lotta continua, una lotta incerta e indecisa sino all’ultimo… Siamo lì, tra color che son sospesi fra la Vita e la Morte, ad ubbidire ciecamente al Signore della Vita, il Padre nostro che è nei cieli, quello che ci ha (ri)gettato su questa terra quando abbiamo esercitato male il nostro diritto di scelta, di libertà…
Il cattolicissimo Luigi lo dice come se fosse la cosa più naturale del mondo: ci sono due regni distinti, «l’eternità, vittoria sul male definitiva ed eterna» e «la storia temporale, lotta tra bene e male…». «Come vanno d’accordo questi due terreni?». «C’è stata di mezzo la caduta dell’uomo, cioè c’è stato di mezzo il ridestamento del male ch’era sopito, ch’era ridotto a semplice possibilità….». «È con l’atto libero della caduta che ha luogo l’inizio della storia temporale umana e quindi del conflitto e del contrasto senza fine». Tutto come da Catechismo, tranne quel «male sopito» che se ne sta in agguato, pronto a risvegliarsi in quel singolare paziente asintomatico che sarebbe Dio. Le colpe dei padri ricadono sopra i figli… La colpa del padre nostro Adamo cade su di noi… Mannaia teologica che miete vittime… «Con la caduta, il male che era vinto in Dio, cioè possibilità scartata e latente, cerca di rialzare la testa, ridestato dall’uomo sin dall’inizio della storia temporale…».
Ci giochiamo l’eternità, dice Pareyson; sotto il punto di vista temporale, è come il gioco delle tre carte: passato, presente, futuro. C’è un passato protologico e un futuro escatologico: la Protologia ci rimanda a un passato in cui non siamo più (la perduta felicità naturale del paradiso terrestre) e l’Escatologia ci manda in un futuro in cui non siamo ancora (la beatitudine soprannaturale del Paradiso celeste o l’altrettanto soprannaturale dannazione dell’Inferno – celeste?); in mezzo, fra questi due tempi, il presente che conosciamo bene. Per capire come possano coesistere un presente umanamente combattuto e un passato divinamente pacifico, per quanto toccato dal presente umano, «…soccorre l’idea della caduta, dell’uomo che, rifiutando la creazione, ha fatto ricadere la creazione in un certo senso nel nulla o per lo meno ne provoca il fallimento».
Secondo Pareyson ci sono due storie parallele, due vite parallele: la Storia di Dio e la storia dell’uomo; per quanto la “Storia” di Dio non possa propriamente essere chiamata storia, essendo essa fuori del Tempo, tuttavia la religione – dice Pareyson – «la vede come una storia (sia pure non temporale come quella umana), una storia che ha i suoi tempi (sia pure non continui), che ha le sue epoche, le sue ere…». Chissà perché Pareyson non ha chiesto aiuto alla lingua latina, per dare un nome alle due storie in esame:
- aevum, i, (n.): il tempo della Storia di Dio: evo.
- aetās, ātis, (f.): il tempo della storia dell’uomo: età.
La Storia DIALETTICA che nel titolo di questa quarta lezione figura insieme alla LIBERTÀ è proprio data dall’intersecarsi di Evo ed Età. «È nell’eternità e nel tempo così concepiti, come intersecantesi fra di loro, che opera la dialettica…». «Il tempo storico umano ha ha in sé una presenza dell’eternità che (…) impedisce che essa rientri nel nulla e la sorregge nella lotta continua contro il male trionfante». L’incarnazione di Dio sarebbe il modo in cui la Provvidenza avrebbe legato l’età umana all’evo divino: senza questo legame, il tempo dell’età umana «non resisterebbe alla distruttività del male: rientrerebbe nel nulla». «Insomma, l’universo è una vicenda che ha due facce: da un lato è temporale, dall’altro è eterno»; a patto però che si ammetta – dice Pareyson – un’interfaccia, «perché il tempo senza eternità cade nel nulla». Se da una parte, quindi, le età dell’uomo hanno bisogno dell’evo di Dio per non implodere, dall’altra l’evo divino abbisogna delle età umane «perché l’eternità senza tempo è statica, è inerte, e non è certo quella del ‘Dio vivente’. Non sorgerebbe dal nulla, sarebbe essa stessa il nulla, senza l’inizio eterno».
Di fronte a queste elucubrazioni che s’arrampicano sui vetri, il pensiero desistenziale riporta tutti con i piedi per terra: state con i piedi per terra, umani, lasciate perdere ciò che non potete indagare, ciò di cui non potete sapere nulla, ciò di cui nessuno sa niente. Non abbiamo bisogno di rivelazioni, di scappatoie misteriose che solo una grande fede può illudersi di scoprire: sono vicoli ciechi queste vie di fuga metafisiche, sentieri per svicolare intrapresi da fifoni che se la svignano, se la danno a gambe levate per fuggire la realtà insopportabile dell’esistenza. E poi, basta con questo romanzo fantastico dei due mondi paralleli: il mondo metafisico di Dio e quello fisico dell’uomo; basta con questi narratori di verità inaccessibili: affabulatóri di fantasy, imbonitori di fantateologia, se non di fantafilosofia. Come può, uno come Pareyson, che fu professore di filosofia teoretica all’Università di Torino (nonché ordinario di estetica) andare a raccontare delle storie del genere? Cos’è questa mitopoièsi, questo inventare favole più o meno convincenti per cercare di spiegare l’ontalgia esistenziale? Evo? Età? Storia divina? Storia umana? E cosa dovrebbe fare adesso il Profeta della Desistenza? Uno schemino, una tabella per illustrare da buon professorino coscienzioso la fondatezza dell’estasi pareysoniana? Va bene, ecco lo schemino:
IN AEVO
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!
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IN AETATE
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HISTORIA DEI
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PECCATUM ORIGINALE
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HISTORIA HOMINIS
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Voilà! E adesso? Forse che dopo aver capito bene in cosa crede il signor Pareyson noi stiamo meglio? L’ontalgia esistenziale imperversa, a dispetto della favola bella pareysoniana. Il coronavirus compie il suo corso senza fare sconti. Anima, Mondo, Dio: già Kant diceva che queste sono solo tre idee della ragione, le idee sono concetti necessari della ragione, necessari alla ragione ma non all’intelletto. Per quanto Fichte e Schelling abbiano recuperato il concetto platonico di dialettica, e Luigi Pareyson abbia seguito il loro esempio, la DIALETTICA come διαλεκτική τέχνη è per sua natura polemica, bellicosa, oppone due discorsi per prendersi il gusto di vedere quale dei due avrà la meglio.
Proprio stamattina, 6 aprile 2020, è uscito in edicola, con la Repubblica, il settimo di otto volumi di Filosofia viva intitolato Il libro della quiete interiore di Gerd B. Achenbach (nato nel 1947 a Hameln, in Germania), considerato il padre della consulenza filosofica; questa “collana” di otto volumetti ha esordito con Platone è meglio del Prozac di Lou Marinoff (nato nel 1951 a Montréal), uno dei maggiori consulenti filosofici del mondo. Che la filosofia si metta a fare Counseling è senz’altro meritorio, ma è anche indicativo di un fatto preoccupante: l’esistenza pesa al punto di mobilitare non solo i farmaci antidepressivi bensì anche il pensiero positivo. Il “bugiardino” del Prozac lo mostra indicato per:
Episodi di depressione.
Disturbo ossessivo compulsivo.
Bulimia nervosa: Prozac è usato insieme alla psicoterapia per la riduzione delle abbuffate e delle condotte di eliminazione.
Che Platone sia meglio del Prozac, questo è tutto da dimostrare, ma certo la bulimia ontologica che da sempre affligge l’Umanità ha bisogno di un farmaco risolutivo; la Desistenza si propone come tale. Quanto alla quiete interiore di Achenbach, è inutile cercarla in questo mondo, la quiete: da che tutto scorre – Eraclito l’ha detto chiaramente – l’abbiamo capito ormai bene che il letto del fiume è sempre lo stesso ma l’acqua che vi scorre cambia sempre; in questa immagine c’è già la dialettica: l’immutabilità che scorre nella mutabilità, l’immoto che fluttua nel moto…
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MEONTOLOGIA DELLA LIBERTÀ – SLIM EDITION
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@GRAFIC. by MAGUDA FLAZZIDE, 2020