MEONTOLOGIA DELLA LIBERTÀ (prima lezione) I,1

«La libertà è data» (?). Se è data non è più Libertà. La libertà relativa non ci interessa: o Libertà assoluta o niente! Peccato che solo un Dio, come primo anello della catena ontologica può vantarsi di Essere assolutamente libero. Se però non si crede in un Dio di questo tipo, non si può concludere altro se non che nessun essere umano è libero, in sé, proprio per il fatto che la sua libertà essendo data non è Libertà.
LIBERTÀ è DESITUAZIONE
(Libertà e situazione ai tempi del coronavirus)
Ontologia della libertà. Così la casa editrice Einaudi [Einaudi Paperbacks Filosofia (253) – Torino, 1995] titolò un libro che contiene i pensieri “postumi” di Luigi Pareyson: pensieri che avrebbero cioè dovuto essere pubblicati in due libri (Ontologia della libertà & La libertà e il nulla) che in realtà non furono mai pubblicati a causa della morte del filosofo avvenuta nel 1991; curiosamente il sottotitolo del libro rinvia a Il male e la sofferenza.
La prima lezione di Luigi Pareyson tratta di Libertà e situazione. Ivi si dice che l’uomo è un rapporto con l’essere e in questo rapporto consiste la sua esistenzialità. Ma l’essere è irrelativo: pone a priori il rapporto relativo che segue a posteriori nella dimensione esistenziale. Già qui il desistente si ferma e commenta confutando. L’Essere è certamente irrelativo, dal momento che non rispetta la libertà fondamentale dell’essere (umano) esistente: la libertà di non aver niente a che fare con Lui (o con Esso). L’esistenza ha un vizio di forma posto per così dire in ingresso: non ha alcuna relazione, in termini decisionali, con l’Essere che l’esistenza stessa è quando esiste. Se da una parte l’Essere è irrelativo nel senso di inoggettivabile, dall’altra Esso (o Lui) è relativo nel senso di oggettivato; ma, fra l’inoggettivabilità a priori e l’oggettivabilità a posteriori il pensiero desistenziale riflette sull’oggettivabilità come condizione affinché l’Essere diventi (possa diventare) Esistenza nel passaggio dall’inoggettivato all’oggettivato. Se, come sostiene Pareyson, l’uomo è il rapporto stesso con l’Essere, si potrebbe obiettare che l’oggettivazione esistenziale dell’Essere nell’individuo umano è una sorta di automatismo ineluttabile con la spiacevole conseguenza che la Libertà, in senso assoluto, diventa una chimera. L’Essere «pone» il rapporto? Ma allora lo suppone al punto di porlo necessariamente!
Ho il sospetto che l’Essere pareysoniano suppone l’esistente, non solo lo pone. Lo chiameremo l’Essere “supponente”? Come se Esso (o Lui) fosse essente prima ancora che una coppia di genitori lo renda esistente in un figlio? Questa mentalità ontologica è fortemente viziata dalla religione, in questo caso senz’altro cristiana (e cattolica, cattolicissima). Questo Essere che «pone» l’Esistente sembra un Lui divino ancor più che un Esso energetico puro; un Essere che si deve porre e supporre per giustificare l’esistenza di ogni essere essente? L’«ontologia dell’inesauribile» è per il desistente soltanto quella derivante da una umanità che senza posa estrae dalla sua capacità di procreare umani a volontà: l’Essere può invece essere esaurito, in termini esistenziali. L’«infinità ontologica» è un concetto fideistico che presuppone la supponenza di un Essere-Lui dal quale deriva ogni capacità procreativa dell’umano. «Come irrelativo, l’essere si sottrae al rapporto, è irriducibile, eppure è presente nel rapporto nel senso che lo istituisce», dice Pareyson. Il desistente dice invece che è una coppia genitoriale la sola che istituisce l’Essere quando in un concepimento lo incarna materializzandolo; ma, questo cosidetto Essere, non è una dimensione ontologicamente a priori ponentesi come conditio sine qua non per la produzione dell’esistente: Esso è solo la possibilità naturale dell’esistente di riprodurre la natura stessa, è Esso, non è Lui. L’Essere è «presente nell’atto umano», sì, ma solo nell’atto sessuale fecondo di un lui e di una lei; l’atto sessuale è l’unico «fondamento» dell’ontopoiesi che preme al desistente. Inutile cianciare di un Essere come fondamento al di là dell’Esistere concreto.
Ma poi subito Pareyson corregge il tiro dicendo che, a ben vedere, l’Essere non è fondamento perché in realtà esso è libertà. Libertà?
Libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Questi versi famosi del I canto del Purgatorio dantesco possono essere messi in bocca a qualunque desistente che si rispetti: il desistente solo sa che la Libertà vera, l’unica Libertà, risiede nel rifiuto della vita di là da venire; l’Essere, quando ormai è esistente, non è più libero. Il desistente rifiuta la vita perché sa che l’Essere, una volta esistenzializzato, perde la Libertà fondamentale: la Libertà di non essere esistente.
«Insomma – dice ancora Pareyson – l’essere è in rapporto con l’uomo solo in quanto l’uomo è in rapporto con l’essere». La duplicità indivisibile di Essente ed Esistente è una vecchia mania filosofica del ‘900 che il pensiero desistenziale aborre; l’introduzione di due termini come Essente ed Esistente è da rigettare non meno di quella instaurata dalla filosofia pre-novecentesca riguardo ad Anima e Corpo, che la Fenomenologia ha cercato in tutti i modi di condannare. Se l’essere umano non lo vuole, non c’è nessun Essere a monte che possa farsi Esistere a valle, eccezion fatta, ovviamente, per il processo naturale, che, incosciente, esistenzializza automaticamente senza bisogno di un intervento decisivo come quello decisionale. In questi termini, non ha senso parlare di «inseparabilità di esistenza e trascendenza», perché l’Essere non trascende l’Esistere necessariamente e nemmeno ne è condizione possibilitante; l’idea di trascendenza dell’Essere è un residuo malsano del dogmatismo religioso ed è un residuo assai pericoloso, perché insinua negli umani la credenza di un antecedente esistenziale che garantisce l’esistenzialità stessa di tutto (la filosofia di Emanuele Severino è un esempio di come questa residualità religiosa della trascendenza dell’Essere possa diventare una precondizione capace di garantire la materializzazione dell’Essere nell’esistenza ed anche la sua conservazione oltre l’esistenza).
Come si può dire, che l’essere-esistente allude sempre in qualche modo ad un Essere-essente che lo fonda a priori, a monte? Il desistente vede questo umano esistente, e al di là di esso nulla. Dire che l’esistente ci parla dell’Essente è fare un discorso del tipo di quello narrato nel Salmo 18 (19):
1 Al maestro del coro. Salmo. Di Davide.
2 I cieli narrano la gloria di Dio,
l’opera delle sue mani annuncia il firmamento.
3 Il giorno al giorno ne affida il racconto
e la notte alla notte ne trasmette notizia.
4 Senza linguaggio, senza parole,
senza che si oda la loro voce,
5 per tutta la terra si diffonde il loro annuncio
e ai confini del mondo il loro messaggio.
Il meccanismo del “rimando”, fondante il rapporto creazione-Creatore (tanto utile alla teologia) sembra tornare subdolamente nelle visioni fenomenologiche che adorano il fantasma filosofico dell’Essere al di là dell’esistente; e Pareyson non fa eccezione, perché è in quella dimensione invisibile dell’Essere al di là dell’Esistere che egli va ancora e sempre a cercare la legittimazione del principio di Libertà; qui si vuole vedere «lo spazio della libertà», come se questo spazio potesse legittimarne l’esistenza.
Venendo ai concetti di «autorelazione» ed «eterorelazione», dei quali l’esistenzialismo vorrebbe la coincidenza, in senso desistenziale l’eterorelazione non è con un Essere misteriosamente trascendentale che è fuori di noi essendo in noi, bensì con una coppia genitoriale che avvia il processo generativo del concepimento. L’aspetto eteronomo della presunta autonomia esistenziale dell’individuo è unicamente l’estraneità inaccettabile della causa prima del processo ontologico di esistenzializzazione. Pareyson sostiene che «l’esistenza è coincidenza di autorelazione ed eterorelazione» ma lo scandalo risiede nell’estraneità dell’eteronomia generazionale/genitoriale; lo scandalo inaccettabile dell’essere-posto-in-essere è il suo essere avulso dalla pre-posizione stessa che lo origina. In termini di «attività» e «passività» l’eterorelazione è certamente passività di un essere-posto-in-essere suo malgrado.
Questo argomento è veramente pane per i denti del desistenzialista. Pareyson parla di «concetto di esistenza come coincidenza di autorelazione ed eterorelazione in due modi; uno, concependo l’atto umano come passività e attività insieme; l’altro, concependo l’atto umano come accettazione di un dono». Al primo punto della trattazione di questo nodo cruciale Pareyson pone un principio generale secondo il quale «nell’uomo non c’è passività che non si risolva in attività» anche se «la libertà ha certamente dei limiti». A un certo punto il filosofo di Piasco dice che «c’è, sì, una necessità che costituisce una datità e quindi una passività, e questo tanto nella situazione quanto nella libertà. Nella situazione, è ovvio, perché nella situazione c’è un’infinità di cose che non dipendono da noi (la nostra nascita, la nostra condizione, i genitori che abbiamo, il luogo in cui nasciamo, ecc.), non solo, ma l’inizio della nostra situazione è una nascita a cui non abbiamo dato alcun consenso, e quindi è una necessità che ci è piombata tra capo e collo, e guardando nell’incertezza del futuro c’è per lo meno un’assoluta certezza, e cioè qualcosa di inesorabile che è la morte. Quindi la situazione è tutta intessuta di necessità.». Il grassetto è mio.
Qualunque discorso filosofico comincia in medias res. In principio c’è una decisione subìta: la decisione di due genitori di concepire un figlio. Qualunque pensiero, filosofico o meno, inizia nel bel mezzo di una situazione. «Nella situazione, è ovvio», dice Pareyson. Io credo che questa ovvietà sia proprio tutt’altro che ovvia, se per ‘ovvio’ si intende qualcosa che non merita di essere considerato, o qualcosa che va accettato per forza come ineluttabile. Come un’automobile già in moto, un’auto che si sta già muovendo: così la nostra esistenza; e se qualcuno, su quell’auto, non volesse viaggiare? Non volesse muoversi? Il motore non l’abbiamo acceso noi, l’hanno acceso i nostri genitori. Le soluzioni sono solo due: o aspettare che il viaggio finisca (= morte naturale) oppure buttarsi fuori dalla macchina (= suicidio). La situazione del viaggiatore non dev’essere quella, necessitata, di chi s’è messo in viaggio senza volerlo: questo solo è veramente ovvio; eppure, questa ovvietà, che nel caso del ‘viaggio terreno’ è evidente, ed accettata unanimemente, nel caso del “viaggio esistenziale” è sottovalutata al punto di non essere neppure considerata.
Le riflessioni filosofiche di Pareyson avrebbero dovuto fermarsi subito dopo le parole che ho citato poc’anzi. Punto. Di quale attività possiamo parlare, di quale Libertà (in senso assoluto) se tutto il discorso deve cominciare da una passività, da una necessità? Ecco dove cade ogni conato filosofico che non consideri l’ovvietà suddetta come pietra d’inciampo di qualunque filosofia. Ogni filosofia che non prenda sul serio l’aporia causata dallo scandalo della necessità iniziale è una filosofia che costruisce pensieri su un presupposto errato, errato perché causa di male e sofferenza: la propedeutica iniziatica di ogni filosofare dovrebbe fondarsi su una lucida coscienza di libertà necessitata, cioè di una Libertà inesistente, in senso assoluto. Il male e la sofferenza, tanto per prendere in parola il sottotitolo del libro dal quale prendiamo le mosse, sono sviluppi esistenziali di una concezione filosofica dell’Essere che non è in realtà Libertà (assoluta, con la «L» maiuscola). Ripeto, tutte le pagine di un libro sull’ontologia della libertà che seguono l’accorata constatazione di una libertà necessitata in partenza sono pagine superflue che dovrebbero restare bianche. E tuttavia, per rispetto e stima nei confronti di Luigi Pareyson, noi desistenti commenteremo tutte le pagine del suo libro, per onestà intellettuale, diciamo.
«Quindi la situazione è tutta intessuta di necessità». La situazione è passività eteronoma; che valore può avere una attività autonoma, dal momento che essa è sovrastata a monte da una subordinazione totale? Cosa ce ne facciamo di una libera attività autonoma se essa è prigioniera di una forzata passività eteronoma? La rassegnazione – molto cristiana – del nostro filosofo si esprime in questi termini: «ribellarsi non porta a niente, ma tuttavia porta al rovello della non-accettazione, del ripudio interiore, per cui la situazione che poteva diventare una possibilità, poteva essere un veicolo, diventa invece un ostacolo, diventa invece una prigione». Ma certo! Dal rovello della non accettazione nasce la ribellione desistenziale. Ribellarsi non porta a niente? Non porta a niente solo se gli umani che già esistono continuano a far esistere altri umani, ma, se l’umanità in toto interrompe il processo generazionale, allora la ribellione giungerà al segno. Solo il ripudio interiore dell’esistenza, della vita umana, può salvare i non nati dalla condanna di esistere. L’esistenza è una prigione, e se ne evade solo morendo; non è difficile capire che c’è solo un modo di uscirne: non entrarvi affatto.
La situazióne situa a priori l’esistenza e questo basta per la sua confutazione. L’«iniziativa iniziata» ci caratterizza perché «l’uomo è principiato» da una «necessità iniziale» insita nella passività eteronoma e non libera che ha subìto quando senza consultarlo i suoi genitori gli hanno dato l’esistenza. È una contraddizione in termini, un’iniziativa iniziata e l’essere umano vive la propria esistenza in questa contraddizione vivente che origina l’ontalgia come male di essere e dunque malessere. Spesso il male di vivere ho incontrato…
«Iniziativa iniziata» suona tanto come ‘libertà condizionata’: ossimoro scandaloso. Com’è possibile che persino i filosofi, esseri pensanti per definizione, possano accettare supinamente un concetto di libertà defraudato come quello di ‘libertà condizionata’? Sì, perché la Libertà o è totale o non è. Il filosofo in sommo grado dovrebbe non dare per scontata la necessità dell’essere iniziato da altri. Cos’è questa assuefazione al Principio? Solo a chi non è abituato a mettere in dubbio ciò che è principialmente notorio può non sorgere il sospetto che il Principio sia in sé inizialmente sbagliato; e soprattutto chi è propenso ad accettare il dogmatismo religioso cattocristiano può senza fiatare chinare il capo di fronte a un Inizio costitutivamente aberrante. «La stessa libertà è data…», dice Pareyson, e china il capo. Meglio tagliarlo, un capo che sa solo chinarsi. Meglio la ghigliottina desistenziale. «La stessa libertà è data: non può essere iniziativa se non come iniziata, però il suo essere iniziata dev’essere iniziativa.» Gioco di parole tipicamente esistenziale. Se l’iniziativa dev’essere iniziata non potrà mai e poi mai diventare iniziativa vera e propria. La rivoluzione desistenzialista taglia tutte le teste che fanno capo a un codice deontologico di questo tipo, senza né capo né coda. Un ragionamento che cerchi di salvare l’iniziativa autonoma e il suo essere iniziata da altri (eteronoma) è analogo a quello che voglia salvare il Creatore pur constatando la dannazione della creatura; il desistente preferisce rifiutare il concetto di creazione sì che la creatura può solo avere un’iniziativa soterica: l’iniziativa di non iniziare mai più anima viva.
«La libertà è data» (?). Se è data non è più Libertà. La libertà relativa non ci interessa: o Libertà assoluta o niente! Peccato che solo un Dio, come primo anello della catena ontologica può vantarsi di Essere assolutamente libero. Se però non si crede in un Dio di questo tipo, non si può concludere altro se non che nessun essere umano è libero, in sé, proprio per il fatto che la sua libertà essendo data non è Libertà. Si vede dunque bene che solo il filosofo che accetta in qualche misura la concezione dogmatica della creazione può saltare a piè pari l’ossimoro scandaloso della libertà concessa, cioè della libertà sub condicione. A una condizione sola noi possiamo illuderci di essere liberi: accettando senza condizioni la premessa maggiore del nostro esistere, vale a dire il nostro essere lībĕri.
lībĕri, ōrum, (m. pl.):
1 figli (la parte libera della familia romana).
2 anche d’un solo figlio.
3 figli maschi.
4 figlie.
5 piccoli di bestie.
- Sing. lībĕr, ĕri, e a.; gen. pl. anche liberum.
[cf. 1. lībĕr].
In un contesto latino, possiamo storicamente accettare una libertà data da un Padrone, e allora accettare la legittimità di un liberto, cioè di uno schiavo liberato; ma non è difficile vedere come questa libertà derivi dall’iniziativa di qualcuno che ci è Padrone, qualcuno che come un Dio decide per sua somma magnanimità di liberarci.
lībertus, i, (m.):
liberto, schiavo affrancato (in rapporto al padrone): alicuius o alicui libertus, liberto di uno.
[lībĕr + -tus].
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MEONTOLOGIA DELLA LIBERTÀ – SLIM EDITION
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