MEONTOLOGIA DELLA LIBERTÀ (terza lezione) III,3

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Il credo esistenzialista di Sartre è agli antipodi del credo desistenzialista:
«è nell’angoscia che l’uomo prende coscienza della sua libertà o, se si preferisce, l’angoscia è il modo d’essere della libertà come coscienza d’essere», c’est dans l’angoisse que l’homme prend conscience de sa liberté ou, si l’on préfère, l’angoisse est le mode d’être de la liberté comme conscience d’être. L’esistenzialismo arriva a redimere l’angoscia facendo di lei una grandissima opportunità per rendere finalmente coscienza della nostra vita; ma arriva da Heidegger, questa solfa: è un riadattamento francese della filosofia tedesca di Martin Heidegger.
A nessuno piace lavorare, così si sente dire, ma nessuno riesce a non lavorare: riuscire a fare vacanza è più difficile che uscire per andare a lavorare; infatti, la parola Vacanza ci parla di qualcosa di Vacante, qualcosa che non c’è: l’occupazione. In questi giorni il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, parla di ‘sofferenza psichica’, quando cerca di consolare gli italiani costretti a stare a casa. La disoccupazione forzata è sofferenza psichica; sì, ma solo quando non si è imparato a stare di fronte all’Essere così com’è: vuoto, vacante, vacanza pura di tutto. Solo la pratica filosofica insegna come stare da soli di fronte al proprio essere senza finire in depressione: la pratica religiosa ha imparato dalla filosofia il modo di riempire la vita, non viceversa. Noli foras ire, raccomanda sant’Agostino, come Giuseppe Conte comanda di non uscire di casa. Non uscire è molto difficile: si resta soli con se stessi, senza niente da fare, ed allora si fanno i conti con l’Essere così com’è. I non credenti non riescono a trovare Dio senza uscire da se stessi: forse, che Dio lo si trovi nell’intimo della propria Anima, è solo una bufala dei cristiani, i quali più di tutti non sopportano la vacuità del loro Essere. Però bisogna avere il coraggio di dirlo: se Essere fosse fonte di Benessere in sé e per sé, tutti staremmo bene a casa nostra e non sentiremmo il minimo bisogno di uscire da noi stessi e da casa nostra per elemosinare dagli altri un po’ di svago nel lavoro. Il vostro Profeta, o desistenti, scrisse al riguardo il seguente motto:
VIDIT QUIA MALUM
Se ESSERE fosse BENE, il BEN-ESSERE ne conseguirebbe;
ma siccome il MALE di VIVERE non si può negare,
nemmeno si può affermare il BENE di ESSERE:
il MAL-ESSERE dimostra il MALE di ESSERE.
E poco importa il perché (= peccato originale?) e il percóme (= disgrazia?), e se un giorno non sarà più così (= redenzione?): adesso è così (= esistenza), il resto non conta (= desistenza).
Basta guardare come si lamentano tutti, per concludere che Essere non è Bene. Ma torniamo al grande dilemma: se il primato tocchi all’Essere o al Nonessere. Luigi Pareyson dice che «il positivo primeggia a tal punto che lo stesso atto di negazione può esercitarsi solo con un atto positivo con cui la libertà afferma se stessa, cioè come positivo atto di negazione, in cui la libertà porta tutta la propria energia per negare; rivelandosi così non mera negazione, ma vero e proprio annientamento, cioè forza contraria, forza negatrice, forza distruttiva». Riandando all’inizio della lezione terza, si legge, l’abbiamo visto, che la libertà si presenta come «un’eguale possibilità di scegliere l’essere o il non essere, il bene e il male».
In termini cronologici, per quanto la narrazione pretemporale della vittoria dell’Essere sul Nonessere sia inesponibile cronologicamente, verrebbe da dire che prima ci fu il Nulla del Nonessere e dopo il Tutto dell’Essere; o, almeno, verrebbe la tentazione di ipotizzare che l’Essere del Bene abbia dovuto (e debba eternamente) ribadire la propria vittoria sul Male del Nonessere: la creazione, se avvenne dal Nulla, deve eternamente occupare lo spazio vuoto del Nulla e altrettanto deve fare il Bene per ribadire la propria vittoria sul Male. Sì, lo sappiamo che è scorretto pensare il Nulla come una specie di scatola vuota che contiene Tutto, o come una specie di involucro che gli fa da cornice; e tuttavia possiamo legittimamente chiederci: chi, o cosa, stava male, prima che il Bene facesse la sua trionfante irruzione nel Nonessere del Nulla, occupandolo tutto? Qualcuno si lagnava, nel non-essere-qualcuno? Qualcosa si lamentava, nel non-essere-qualcosa? No, non c’è dubbio! Piuttosto, visto che il nostro Luigi parla di affermazione di sé e negazione di sé, ce lo dica, se può: chi e che cosa afferma, chi afferma? chi e che cosa nega, chi nega? Il Profeta su questo è stato illuminante: chi afferma senz’altro afferma se stesso se è Essere, ma chi nega indubbiamente non può né negare né affermare se stesso se Essere non è. La prepotenza dell’affermazione non può essere attuata dal Nonessere, perché il Nonessere non è; l’autoposizione dell’affermazione è possibile solo a un Essere che è. Il Nonessere è neutrale, non prende le parti di Niente e Nessuno. Affermare è latinamente ad + firmāre = rafforzare la propria posizione, fermarla entro saldi confini (cfr. la terraferma); l’affermazione come autoposizione implica un Essere capace di porsi: come potrebbe, il Nonessere, porsi, dacché Esso non è? A livello cosmico è difficile immaginare (il) Nulla: bisognerebbe pensare all’assenza totale di (del) Tutto; cosa non impossibile, dal momento che possiamo pensarla, ma per ora improbabile. Ma, risalendo alle origini dell’Ontomachia che ha proclamato l’Essere vincitore del Nonessere, il Profeta dice che questa battaglia non ha mai avuto storia, poiché vincere contro Nessuno, vincere contro Nulla è talmente facile che non occorre nemmeno una guerra; per non dire che senza tempo non c’è storia. Il Dio senza tempo non ha storia, al di fuori della tragica vicenda della sua Incarnazione come Figlio di se stesso.
A ben vedere, quando si parla di libertà, bisogna proprio distinguere fra la narrazione di una “Storia” (fra virgolette) che precede la nostra (la quale comunque non può essere veramente Storia dal momento che non è nel Tempo e nello Spazio) e la storia che noi conosciamo, la nostra storia: la Storia che precede la nostra è quella di cui l’ermeneutica s’occupa quando considera i “fatti” (?) dell’Ontomachia e cose del genere, cioè le gesta di Dio prima che creasse l’uomo e, soprattutto, prima che l’Uomo peccasse dando inizio all’esistenza terrena a tutti nota. In Esistenza e persona (1950) lo stesso Pareyson scrisse che «la storia è l’essere nel tempo»; col che qualunque vicenda immaginata fuori del tempo non è quella dell’Essere assoluto, l’Essere che sarebbe Libertà assoluta. Le epiche gesta di Dio prima della creazione, possono anche riguardare una strepitosa vittoria sul Male del Nonessere (chi può dirlo?) ma questo non ci interessa poi molto, in verità: siamo tutti capaci a fantasticare su cose delle quali non sappiamo assolutamente nulla (con buona pace delle cosiddette rivelazioni di questa o di quella religione). I credenti vogliono credere che il loro Dio ha vinto le tenebre del Male, la notte del Nulla, l’oscurità di Nessuno? Padronissimi! Ci credano pure, se questo può farli felici; del resto, sappiamo tutti che codesti credenti trovano la loro felicità in un mondo che sta al di là del nostro, dietro al nostro (il mondo dietro al mondo). Ma costoro non si permettano di spiegare il nostro mondo, l’unico che conosciamo, con delle leggi che dicono essere in vigore nell’altro mondo: questo non va bene, questo è scorretto.
«L’atto di libertà che affermandosi e realizzandosi esce dal non essere (vince il non essere) mantiene la possibilità di rientrarvi e di morirvi, soccombervi», dice Pareyson. Mah! Che l’Essere, se è Dio, possa rientrare nel Nonessere, questo lo escluderei: per ciò che riguarda l’Essere divino penso proprio che non ci sia il pericolo che esso possa annientarsi meontologicamente nel Nonessere che ha vinto una volta per sempre: ne andrebbe dell’Essere stesso di Dio! Egli è, e se lo tiene ben stretto, il proprio essere. Piuttosto, un discorso approfondito andrebbe fatto per quel che riguarda l’essere umano, perché mi pare proprio di poter applicare il teorema pareysoniano alla meontologia desistenziale: l’essere umano ha, a ben vedere, la possibilità di far vincere il Nonessere, ma non nei termini di un ritorno ad esso, bensì in quelli di una mancata uscita da esso; il desistente che non materializza Qualcuno lasciandolo quel Nessuno che esso è, in ultima analisi non è che faccia ritornare Qualcuno nel Nulla, semplicemente non lo tira fuori da esso, non lo pro-voca: in latino prōvŏco, as, āvi, ātum, āre significa ‘chiamar fuori’ (pro- + vŏco).
«L’atto di libertà è l’atto della scelta che è la scelta di un atto; la scelta di un atto è l’atto della scelta». O buon Luigi, dimmi, un essere umano già attuato da un atto sessuale fecondo, come può scegliere di non essere più? Io non vedo che il suicidio; tu vedi altri modi per uscirne? Sai qual è il tuo errore, Luigi? Quello di restare nel corto-circuito (circuito corto) dell’essere già: se si prende in considerazione il non essere più o il non essere ancora, tutti i tuoi ragionamenti cortocircuitano, Luigi. Questi tuoi pensieri ontoteologici sulla libertà reggono solo se non si prende in considerazione l’unico caso che fa saltare tutto il sistema: il caso appunto della ribellione contro l’essere, l’obiezione di esistenza della desistenza come rivolta dell’essere umano contro l’essere già. Ammetto che a questo mondo sono effettivamente pochi gli esseri umani così incazzati con la vita da metterla in dubbio, però questo non significa che la loro lagnanza non debba essere ascoltata. «La libertà è così libera ch’essa è un’autoposizione e si realizza col suo stesso atto, ch’essa è sempre in atto e non può essere in potenza»? Il nostro Profeta ha detto che la Potenza più grande non è quella dell’Onnipotenza divina dell’Essere ma è la Potenza umana dell’essere-in-potenza, non essere: Nonessere. L’Essere divino non può non permanere come l’Essere che è; l’essere umano può rimanere come l’essere che non è. L’essere umano può rimanere l’essere che non è sinché non diventa l’essere che è: sembra una tautologia banale, uno scioglilingua, ma il non essere ancòra di cui qui si parla è l’essere ancora libero dal principio di individuazione attuato dall’atto sessuale fecondo; il ragionamento pareysoniano (e non solo) dell’ontodicea (giustificazione dell’essere) parte dall’unico presupposto che la libertà serva ad autoporsi o ad autonegarsi, ma nel senso in cui un essere che è già può appunto affermarsi o negarsi, «cioè si afferma anche nella negazione e con la negazione…».
Un essere che è già può certo affermare e negare se stesso, ma lo fa in quanto appunto egli è già: egli può scegliere in piena libertà di affermare o negare qualunque cosa voglia, ma si tratta sempre dell’affermazione o della negazione di un essere che è già. Se invece consideriamo un essere che non è ancora, costui non può attuare niente e nessuno, poiché la sua individuazione non essendo mai avvenuta, egli non è ancora persona, egli non è. Considerando poi un essere che non è più, il discorso si fa duplice: egli può essere ancora in un altro mondo (soluzione religiosa) o può non essere più tornando al Nonessere da cui i suoi genitori l’hanno tratto quando l’hanno concepito. Il discorso affermativo, in senso logico-grammaticale, necessita di un Soggetto che parla; è impensabile un’affermazione o una negazione, se si prescinde da questo Soggetto.
«Il male è il non essere scelto», dice Pareyson. «Il male è mosso dalla stessa energia che muove il bene; il male non si realizza se non attraverso l’energia che anima il bene. In questo consiste il carattere imitativo, anzi parodistico del negativo, il diavolo come sima Dei». Ah, non c’è dubbio: si può distruggere solo ciò che c’è già (pars destruens); come si può costruire solo ciò che non c’è già (par construens). Ma che energia può avere qualcosa o qualcuno che non è? Nessuna! Ebbi a scrivere ne L’ingiustizia dell’ontodicea:
Probabilmente, è più sensato credere all’eternità di un’Ergon in continua attività – ἐργασία (-ας, ἡ) [→ ἐργάζομαι] – che è essenza di una sostanza perennemente da compiersi – ἐργαστέος (-α -ον) [→ ἐργάζομαι] – sí che, così, si può ipotizzare un’interazione strettissima tra essenza e sostanza, come vorrebbe Aristotele. Ma, se τὸ Ἔργον è l’unica forza dinamicamente attivante le varie sostanze, esso è l’unica essenza di ogni realtà in atto e in potenza; l’Ergon non è un Dio che preesiste alla materia, e nemmeno è la materia, bensì è la forza che attiva la materia informandola nella dialettica dei contrari. L’Ergon, quindi, è necessario che non sia né l’uno né l’altro dei due contrari: esso deve essere neutro, per poter diventare ora materia composta (= informata), ora materia decomposta (= elementarmente semplice: amorfa); l’Ergon non deve essere «né l’uno né l’altro», cioè deve essere οὐδέτερον [οὐδέ + ἕτερος]: neutro. L’essere neutrale – οὐδέτερον εἶναι – dell’Ergon è condizione senza la quale nulla potrebbe divenire: se l’Ergon “parteggiasse” per l’uno o l’altro dei due contrari, la realtà sarebbe o l’uno o l’altro di essi; mentre, invece, se l’Ergon non è in nessuno dei due modi – οὐδετέρως – la sostanza delle cose si trova libera di procedere ora verso l’uno ora verso l’altro dei suoi due contrari, perché la forza che attiva il suo processo non favorisce né avversa uno solo di essi. L’Ergon non deve quindi essere né l’uno né l’altro dei due estremi contrari – τὰ ἐναντὶα οὐδέτερα –, cioè non deve stare da nessuno dei due lati – οὐδετέρωθεν – che nella sostanza delle cose sono correlati; l’Ergon tende verso nessuna delle due parti – οὐδετέρωσε – proprio perché non sta da una parte o dall’altra.
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La Ergìa (= lo Ergon) κατὰ δύναμιν (= in potenza) è l’unica forza capace di attuarsi κατὰ ἐντελέχειαν (= in atto): la Ergìa è costantemente “all-ergìa” nel senso letterale derivato dal tedesco Allergie e composto del greco ἄλλος e ἔργον «attività», foggiato (dal medico austriaco C. von Pirquet nel 1906) sul modello Energie «energia»; la qualità di derivare da altro – ἀλλοτριότης (-ητος, ἡ) [→ ἀλλότριος] – è il principio della differenza che l’Ergìa manifesta nel suo materializzarsi. Fondamentale e imprescindibile, a tal riguardo, il concetto di «metà» – ἥμισυς (-εια –υ) [→ ἡμι-] –: ἡ ἡμίσεια (scilicet μοῖρα) è parte del Tutto, ed è tutto quanto il “destino” dell’Intero quello di essere, umanamente, per metà vivo e per l’altra metà morto. Una metà può essere solo dopo che l’intero si sia dissolto – διαλυθέντος –, dice Aristotele, e quindi, se c’è un intero in atto, la sua metà può attuarsi solo qualora detto intero si dis-attui; viceversa, secondo la potenza, la metà è anteriore all’intero, perché quest’ultimo non è ancora in atto. La doppia faccia (= ipocrisia) dell’Intero è interessante: per un verso, κατὰ δύναμιν esso non è ancora completamente intero; per l’altro, κατὰ ἐντελέχειαν esso è già completamente intero: se si parte dal presupposto che l’intero sia già in atto, allora la metà è effetto della sua decomposizione per decrescita; se invece si parte dal presupposto che l’intero non sia ancora in atto, allora la metà è causa della sua composizione per crescita. La prospettiva del nondum (= non ancora) è quella cinetica; la prospettiva del iam dudum (= già da tempo) è quella statica.
L’energia che secondo Pareyson anima il bene è appunto energia, cioè, grecamente, ἐνέργεια (ἐν + ἔργον = in opera, all’opera); l’atto di cui l’essere è potenza è l’esistere, e questo è quella ἐνέργεια (-ας, ἡ) rispetto alla quale tutto ciò che è ἔργῳ è «in realtà»: – ἐν ἔργῳ –. La potenza di τὸ ἔργον è l’ATTITUDINE che esso ha: ora, se si vuol credere che l’ATTO “reale” è, realmente e re(g)almente, l’unica attitudine di τὸ ἔργον si può certamente inferire che la ἐνέργεια (-ας, ἡ) è il fine – τέλος (-εος, contr. -ους, τό) – naturale dell’inclinazione umana alla vita, la quale è ἐνέργεια = ἐν ἔργῳ e ἐντελέχεια = ἐν τέλει. L’en-ergia è l’in-fine dell’essere in-fatti? Ergo, actus ad rem! L’impotenza dello ἔργον è materialità informe mentre la sua potenza è materialità dotata di forma: informata.
L’Ergon realizza la categoria dell’Actio nel βιόω e quella della Passio nel νεκρόω. La passio non è però un accidente che accade all’actio minandone e compromettendone l’essenza: la sostanza è agita e subita parimenti dall’Ergon nel suo stesso accadere. La retta dell’Ergon è l’Intero costituito dalla totalità delle parti ora animate ora inanimate che originano ora l’ente (= res) ora il niente (= nulla res). Ma, all’infuori della sua cinesi dinamica, l’Ergon non può diventare quello che dev’essere; l’unico assoluto è quindi il concetto di Ergon comprendente tutte le sue parti divenienti.
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MEONTOLOGIA DELLA LIBERTÀ – SLIM EDITION
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