MEONTOLOGIA DELLA LIBERTÀ (terza lezione) III,4

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La desistenza aborre ogni sorta di esistenza, comunque essa sia declinata: maschile, femminile o neutra, non importa; e, tuttavia, se proprio un umano esistente deve credere a qualcosa, la desistenza tollera a malapena un «Uno» neutro che non faccia il tifo né per la vita né per la morte: τὸ Ἕν τὸ Ἔργον –, l’unico “dio” che ha l’onestà (intellettuale?) di non scendere in – ἐν – campo e di arbitrare super partes le due parti che mereologicamente segmentano la retta fisica dell’Umano.
Lo Ergon è l’unico “dio” posto ἐν ἑνὶ καὶ ἐν μιᾷ – nell’uno e nell’una – essendo Esso τὸ Ἔργον τὸ Οὐδέν – la Forza che è Niente – da che è sia εἷς sia μία – sia uno sia una –. Lo Ergon è «Niente» nonché «né l’uno né l’altro»: τὸ Ἔργον τὸ Οὐδὲν καὶ τὸ Οὐδέτερον. In forza dell’Uno neutro dello Ergon v’è l’uno essente maschile – ὁ ὤν – e l’una essente femminile – ἡ οὖσα – in divenire; l’alterità – ἑτερότης (-ητος, ἡ) – dell’uno e dell’una è “in forza” dello Ergon: potentia sia dell’«essere-in-potenza» sia dell’«essere-in-atto». – ὁ ἕτερος μὲν βὶος ὁ ἕτερος δὲ θάνατος – anche se – ἕτερον μὲν βὶος ἄλλο δὲ θάνατος –. Lo Ergon dev’essere «né l’uno né l’una» per poter essere forza – ἰσχύς (-ύος, ἡ) – di tutt’e due; lo Ergon è (per dirlo con Aristotele) la «forza motrice» – ἡ κινοῦσα ἰσχύς –. Lo Ergon ha per natura il principio cinetico – τὸ Ἔργον φύσει κινήσεως ἀρχὴν ἔχει –. La «forza ergetica» ha per natura il principio del movimento e, come dice Aristotele in Metafisica 1052a.25, primo fra tutti è il movimento circolare – κυκλοφορία (-ας, ἡ) [→ κυκλοφορέω] – che alterna le due traslazioni di ogni φορά (-ᾶς, ἡ) [→ φέρω] col moto contrario – ἀντιφορά (-ᾶς, ἡ) [ἀντί + φορά] – dello ἀντίος (-ία -ίον) [→ ἀντί]. Lo Ergon è τὸ φορόν che porta – φέρω – ciò che sospinge con la sua forza ergetica: esso potrebbe a torto essere ritenuto εὔφορον – fertile – qualora si volesse intendere questo εὖ φέρω come legato unicamente alla dosi genetica e non all’apodosi apogenetica; invece, la sua εὐφορία (-ας, ἡ) è una feracità nel senso letterale del verbo fero, fers, tuli, latum, ferre (3 tr.): φέρω –, per cui si potrebbe suggestivamente e a buon diritto parlare di «euforia» dello Ergon a patto che non si dia a questo termine un significato riduttivamente limitato alla produttività genetica della procreazione, cioè a quello che in Metafisica 1014b.15 Aristotele dà alla natura quando la definisce «la generazione delle cose che crescono»: ἡ τῶν φυομένων γένεσις. Lo Ergon “porta bene” perché comporta (= porta insieme) la circostanza – συμφορά (-ᾶς) [ionico συμφορή e attico ξυμφορά] (ἡ) – che porta insieme – συμφέρω – la differenza – διαφορά (-ᾶς, ἡ) [→ διαφέρω] – dei sue due estremi escatologici: una differenza letteralmente “sostanziale” che tollera come compagno – σύμφορος (-ον) – sia l’uno sia l’altro dei due contrari: nella nozione definitoria del suo logos lo Ergon col-lega sia la nascita sia la morte – ἐν τῷ λὸγῳ τὸ ἔργον λὲγει τὸν βὶον καὶ τὸν θανάτον –.
Se la misura di ogni cosa è l’Uno, ebbene, il metro di ogni cosa è lo Ergon; come “unità di misura” assolutamente intesa lo Ergon è infatti indivisibile in quanto Intero: πάντων μέτρον τὸ ἕργον τὸ ἕν. Lo Ergon è l’essenza di tutte le sostanze, nelle sue due forme: organica e inorganica. Ma lo Ergon non è una sostanza, pur essendo sempre e comunque in (una) sostanza; la sua sostanza non è l’essere: da questa lezione, che Aristotele dice dell’Uno, si evince che l’Assoluto preesistente alla creazione è stato concepito quando lo si è pensato e creduto una sostanza avente le caratteristiche di un’essenza ontologicamente reale e pur separata dalla realtà creaturale. L’Uno e l’Essere sono creduti, dal cattolicissimo giudaismo cristiano, preesistenti al creato, ma, forse, invece, non c’è una creazione posteriore allo Ergon, poiché Esso è essenza sostanziata da sempre; quindi, lo Ergon si può dire Intero considerandone il continuum perpetuum – τὸ συνεχὲς τὸ ἀΐδιον –, e Esso si può dire come Tutto considerandone la segmentazione dicotomica delle sue due apotomi.
A ben vedere, la desistenza aggiunge, alle due categorie ontologiche del «già essente» e del «non ancora essente» – iam ens → nondum ens – quella del «non più essente»: non iam (ens). Se è vero che, in senso assoluto, solo dall’Atto può originarsi una potenza-in-atto, è anche vero che, in senso relativo, solo dalla Potenza può non generarsi un atto-in-atto; il teismo ontologico dello iam in praeteritum può essere contrastata dall’ateismo meontologico dello non iam in posterum. Se la Ergìa è stata messa in moto dalla genesi poietica della genitorialità, nulla impedisce che tale poiesi possa essere interrotta; certo, solo gli umani possono concepire la fermata – ἐποχή (-ῆς, ἡ) – che trattiene ἐπέχω [ἐπί + ἔχω] l’Ergìa dal diventare energia biotica o anergia necrotica, e, tuttavia, è ben questo, il Potere sommo dell’Umano: poter scegliere il non iam. Per dirlo in greco, la teologia dello iam ens è quella dello ἤδη [ἦ + δή]: ἤδη ὄν – e si potrebbe chiamare ede-ontologica l’ontocrazia attuale dell’«a priori» che pretende il prima e il predominio del «già»; di contro, il nondum ens latino potrrebbe chiamarsi οὔπω ὄν e quindi up-ontologica l’ontocrazia potenziale dell’«a posteriori». In greco, il non iam latino (= non già & non più) è οὐκέτι [οὐκ + ἔτι], per cui non iam ens sarebbe οὐκέτι ὄν.
La falsa ipocrisia del credo ontologico si fonda sulla divinizzazione del «già» e sulla demonizzazione del «non ancóra». Il «già» è garanzia dell’«ancóra»: ecco l’àncora di salvezza! L’adorazione del «già» è adorazione dell’«atto»: come potrebbe, da ciò che non è ancóra, originarsi qualcosa? come potrebbe, da ciò che non è già «in atto», generarsi ciò che è ancóra «in potenza»? Visti, i colori? celeste l’Atto Assoluto, rossa, la Potenza Assoluta dell’Impotenza / verde l’atto relativo, viola la potenza relativa. Esseri umani in atto sono garanzia di esseri umani in potenza: l’atto umano è garante della potenza procreativa. In latino, garanzia si dice sponsio, onis e non è chi non veda la parentela etimologica che la garanzia ha con gli sponsali. La garanzia sponsale è obbligazione: una sorta di contratto che il «non ancóra» fa con il «già», quasi “obbligato” dall’istinto di conservazione & sopravvivenza. Il «già» relativo al genitore umano aborre il «non ancóra» perché esso è minaccia di estinzione dell’Umano, allora si aggrappa all’àncora del «già» assoluto relativo al Genitore divino con una dinamica assolutamente antropomorfica: se, umanamente, il «non ancóra» può diventare «già» solo mercé un «già» preesistente «in atto», allora, è sperabile che, divinamente, esista un «Già» divino in grazia del Quale possa sempre diventare «già» chi, umanamente, non è ancóra in atto. Eccola, l’àncora di salvezza!
Ma quale stramba ontodicea ha potuto instaurare questa giustizia dell’essere? Semplice: quella della fallodicea umana causata dal terrore del «non-ancóra», e, più ancora, del «mai-più». Che l’errore capitale della procreazione sia un fallo, non ci vorrebbe molto, a capirlo, se solo si riflettesse un po’ sulla dinamica che lega in terra «non-essere-ancóra-per-adesso» a «essere-già», e che collega in cielo «Essere-Già» a «Essere-per-Sempre». In terra, ci vuole un «già» per esorcizzare il «non-ancóra-per-ora»; in cielo, ci vuole un «Già-Ora» per demonizzare il «non-ancóra-per-sempre».
Qui sopra ho selezionato e citato di seguito diverse sezioni in questa sede liberamente assemblate da L’ingiustizia dell’ontodicea che potessero far luce sull’insensatezza di affermazioni come questa: «la positività riduce la negatività a mera possibilità, la negatività per reggersi ha bisogno della positività, ma questa energia positiva che la anima non fa che aumentare la sua forza distruttiva». Pareyson non si sogna nemmeno di prendere in considerazione una Ergìa neutra! Lo Ergon è «Niente» nonché «né l’uno né l’altro»: τὸ Ἔργον τὸ Οὐδὲν καὶ τὸ Οὐδέτερον. Se il nostro Luigi avesse filosofato in modo aconfessionale, se avesse fatto lo sforzo di resettare i suoi pregiudizi religiosi, forse sarebbe riuscito ad evitare quel TOTALITARISMO ONTOLOGICO per il quale «è libero sia l’uomo sia Dio. Ma l’uomo ha scelto la libertà negativa; Dio ha scelto la libertà positiva». Solamente ἐν ἔργῳ si ha l’«en-ergia» di cui parla Pareyson, ma non si ha ancora quando τὸ Ἔργον è τὸ Οὐδέτερον.
Non si capisce come Luigione possa poi dire che «non si può identificare l’essere col bene e il non essere col male» quando poco dopo dice che «la positività è vittoria sul nulla e sul male…»; allora, e contrario, si deve dire anche che la negatività è vittoria sul tutto e sul bene…? Diciamocela tutta: Luigi Pareyson avrebbe dovuto intitolare le sue quattro lezioni napoletane Ontoteologia della libertà e non Ontologia della libertà! La tragicità della sua ontologia della libertà si fonda su una premessa ontoteologica: che possa esistere un’unica libertà con la quale si può scegliere sia il bene sia il male; «che l’uomo non possa fare il bene se non con lo stesso atto con cui si può fare il male, e non possa pervenire alla gioia se non attraverso il dolore…». Questo sarebbe il “pensiero tragico” di Luigi Pareyson? Questo è il pensiero drammatico della sacra rappresentazione cattocristiana. Come si può omologare un atto divino di Libertà incondizionata, assoluta, con un atto umano di libertà condizionata e dire che si tratta essenzialmente dello stesso atto?
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